Ex rosa, Pastore ricorda Zamparini: «Al mio primo gol in allenamento scoppiò a piangere»

L’ex rosanero Javier Pastore ha rilasciato una lunga intervista a “Ultimouomo.com” parlando in merito alla sua esperienza al Palermo.

Cosa ricordi dei tuoi primi contatti con il Palermo?

«Negli ultimi mesi sono venuti in Argentina a vedermi. A volte Sabatini, poi c’era sempre un suo collaboratore di Palermo, anche se ai tempi non mi avevano detto chi fosse. È stato lì per tre mesi, lo vedevo a ogni partita, ogni allenamento, alle cene con la squadra; mi ricordo questa persona che era sempre nell’ufficio del mio procuratore, io vivevo lì, e lui osservava tutto: come mi comportavo, cosa facevo, se ero serio, educato, tranquillo. Quando io ho deciso di andare a Palermo, il mio procuratore mi sembrava tranquillo, per niente sorpreso. Sapeva che avrei scelto il Palermo. Alla fine mi ha spiegato che quelle persone erano del Palermo: «Sono sicuramente quelli che ti vogliono di più», diceva. Penso sia stata la scelta giusta per questo. Zamparini mi voleva per forza, gli piacevo tantissimo. E Sabatini ha sempre avuto un occhio particolare per i giocatori sudamericani, in quei 5-10 anni ne ha portati tantissimi che hanno avuto delle grandi carriere in Europa».

E del tuo primo giorno in Italia, cosa ricordi?

«Un giorno strano, sinceramente. [ride] Molto strano. Dopo aver fatto un viaggio di 14 ore ed essere arrivato a Milano, mi aspettavano Walter Sabatini e un collaboratore del mio agente. Siamo saliti in macchina per andare direttamente dall’aeroporto in Austria. Io neanche sapevo perché. Sabatini fumava dentro la macchina, io dietro di lui con il fumo che mi arrivava in faccia, per due ore, e pensavo: ma dove andiamo? Arriviamo al centro sportivo, la squadra era lì in ritiro, e mi presentano il presidente, Zamparini; e lui subito, ma proprio subito, mi chiede se volevo giocare, c’era una partita amichevole quella sera. Io avevo 19 anni, appena compiuti… certo che volevo giocare, figurati! Il problema è che non avevo neanche portato le scarpe, anzi non avevo proprio niente con me, perché in Argentina l’ultimo giorno prima di partire avevo regalato tutto. Zamparini allora mi dice: «Non è un problema, non importa, vieni con me», e andiamo sulla sua macchina. Io, lui e il collaboratore del mio agente, che faceva da traduttore. Andiamo in un centro commerciale e Zamparini mi dice: «Prendi tutto quello che vuoi, magliette, pantaloncini, scarpe, tutto quello che vuoi». E io gli rispondo: «Ma come tutto quello che voglio, mi servono solo scarpe e parastinchi», lui insisteva: «No, no, prendi tutto…».

Poi?

«Torniamo al campo, che non era proprio il massimo, e io avevo le scarpe nuove, ma il presidente diceva: «Deve giocare, per forza». Allora entro nel secondo tempo. E subito, la prima palla appena entro, mi arriva alta e faccio un sombrero al difensore che mi viene incontro, la metto giù, tunnel al secondo, la passo lunga a Miccoli che la stoppa, gol. In tribuna non ci credeva nessuno. «Ma guarda questo…». Perché davvero, fisicamente quando mi vedevi i primi anni in Europa, così magro, capello lungo, corto, non si capiva bene, dicevi: ma questo dove va? Ricordo che dopo il gol in tribuna erano tutti impazziti… Zamparini piangeva».

Eh?

«Giuro, mi hanno detto che è scoppiato a piangere!»

Nei primi mesi hai fatto fatica, però.

«Nei primi mesi a Palermo, sì, tanto. Non avevo mai lavorato tatticamente come qua in Italia, e non trovavo gli spazi giusti in campo; mi muovevo ma non mi davano mai la palla, e non perché non me la volessero dare, ma perché ero posizionato sempre male. I primi tre mesi sono stati difficilissimi».

Uno step di crescita necessario?

«Penso di sì, venivo da un calcio diverso. Quando è arrivato Delio Rossi, però, è cambiato tutto. Mi ha parlato il suo primo giorno, mi ha detto: «Ho visto tutte le partite, tu ti posizioni male, è per questo che non stai giocando al tuo livello; il primo mese dopo l’allenamento con la squadra rimani un’ora in più ad allenarti con me». E così abbiamo fatto: prendeva me, Abel Hernandez, sei o sette ragazzi della Primavera, li metteva in campo e faceva girare la palla, seguendo i nostri movimenti e dandoci indicazioni. Lo facevamo tutti i giorni, e mi ha aiutato tantissimo».

Come hai accolto questa “formazione”?

Benissimo, e vedevo quanto fosse utile per me. Ho capito come dovevo giocare e ho recuperato il piacere di farlo, perché finalmente riuscivo a toccare tanto la palla, ad avere spazio per dimostrare quello che sapevo fare. Delio è l’allenatore che ha avuto l’impatto più forte sulla mia carriera in Europa, mi ha insegnato tantissimo. Dopo quel mese, è venuto da me e mi ha detto che ero pronto per giocare titolare tutte le partite. Nel frattempo lavoravo sulla forza fisica, in palestra, e anche quello è stato fondamentale.

Sei arrivato troppo “Flaco”?

«Sì, fisicamente non ero pronto per giocare in Italia, per niente. Mi davano un colpo con il braccio o una spallata, e io perdevo palla, cadevo a terra. L’ho capito, ne ho parlato con i preparatori, con Delio, e per tre mesi mi sono fatto seguire anche da un preparatore argentino che conoscevo. Ci è voluto un po’ per vedere i frutti, ma sia fisicamente sia tatticamente in quei mesi sono cresciuto tanto, e nella seconda parte di stagione ho cominciato a mostrare le mie qualità. Anche mentre lavoravo sulla mia forza comunque stavo già migliorando molto in campo: muovermi meglio mi faceva ricevere palla più libero, con lo spazio per girarmi fronte alla porta e scegliere che giocata fare. Ho iniziato a trovare sempre più continuità e fiducia, la mia e dei compagni».

Che ruolo ha avuto Sabatini in questo processo?

«Come direttore sportivo, mi dava tanti consigli. Tutti i lunedì ci sedevamo nel suo ufficio e lui mi faceva vedere delle cose della mia partita, DVD di trenta minuti ogni volta. Mi diceva: «Questo molto bene», «ma questo male, Flaco», «e qui cosa hai fatto?». Sul gioco, ma anche su come mi comportavo: «perché hai fatto quel gesto a un compagno», e «perché ti lamenti sempre quando non te la danno giusta sui piedi?». Contava quante volte facevo gesti del genere, e io non me ne rendevo quasi conto, finché non guardavo quei video. Non ci potevo credere, a volte. Mi diceva: «È normale che i tuoi compagni dopo non te la vogliono dare, se fai così davanti a tutto lo stadio». Con Sabatini so di essere stato fortunato, perché mi ha davvero preso come se fossi suo figlio. Mi diceva sempre quando sbagliavo, quando facevo male qualcosa anche fuori dal campo, e per me è la cosa più giusta da fare con un giovane. Mi era sempre vicino e per il mio percorso è stato importante, davvero. È rimasto un bellissimo rapporto con lui, come anche con Delio Rossi, che sento sempre volentieri».

Primo nome che ti viene in mente, se ti chiedo chi ha inciso di più sul tuo percorso di crescita personale, a parte Sabatini?

«Sicuramente Ancelotti, la mentalità e la professionalità che ti insegna lo rendono diverso da tutti gli altri. Standoci intorno ti accorgi subito che è abituato alle grandi squadre e alle grandi partite, riesce a trasmettere quella mentalità vincente. È stato il primo a mettermi quelle cose in testa, poi a Parigi sono arrivati tanti campioni: Ibra, Thiago Motta, Maxwell, Thiago Silva…».

Con Ancelotti hai giocato in posizioni per te inedite, tra l’altro.

«Sì, con lui giocavo spesso largo nel 4-4-2, e non l’ho fatto male. Però non era il mio, non mi sentivo libero: per metà partita dovevo difendere, poi giocavo la palla in punti del campo a cui non ero molto abituato. Mi sentivo un po’ snaturato, però Ancelotti voleva far giocare così la squadra ed è un allenatore che riesce davvero ad arrivare al giocatore. È molto bravo con le parole, mi ha convinto che potevo giocare lì e io sono riuscito a farlo bene, anche se sapevo di non potermi esprimere al 100% del mio livello. Ho fatto gol contro il Barcellona al Camp Nou, giocando in quella posizione tutta la partita, sulla fascia sinistra, con Dani Alves e Messi che mi attaccavano. Mi facevano impazzire: uno-due, finte, movimenti… Ancelotti però mi ha convinto di poterlo fare, e l’ho fatto».

Il tuo periodo migliore invece è stato dopo Ancelotti, giusto?

«Sì, con Blanc, che mi ha dato molta più libertà. Giocavamo 4-3-3, io partivo largo a sinistra, ma potevo entrare dentro al campo e scambiarmi con Matuidi, ero molto più libero. Sicuramente sono stati i miei anni migliori al Paris Saint-Germain, e anche quelli in cui mi sono divertito di più. Era incredibile: Thiago Motta, Verratti, Matuidi, Ibra, Lavezzi, Cavani… giocavamo in modo incredibile, a un tocco, cinque o sei passaggi di fila, pam pam pam, palla alta, assist di tacco, gol. Chi gioca così oggi?».

Ti piaceva di più giocare con Ibra o con Cavani?

«Diversi, ma con tutti e due è stato divertente. Con Ibra potevi fare giocate, uno-due, capiva bene il calcio e tecnicamente era molto forte; fisicamente poi era incredibile: sapevo di potergliela dare ovunque, non importava l’altezza, lui ci sarebbe arrivato. Con Cavani invece mi piaceva un’altra cosa: quando alzavo la testa, lui aveva già fatto dieci movimenti, e con uno di quelli si era smarcato. Ho amato entrambi, forse con Cavani ci siamo divertiti di più. A me è sempre piaciuto tantissimo dare l’ultimo passaggio, amavo passare, preferivo un assist a un gol, e con lui era semplice; ero spalle alla porta, giocavo con Motta e Verratti, e appena ricevevo la palla e mi giravo, sapevo dove trovarlo. Siamo riusciti a creare una connessione speciale, facevamo giocate che gli avversari non si aspettavano, da cui sono nati tanti gol. Alcuni anche molto belli».

Uno in particolare?

«Me ne viene in mente uno contro il Marsiglia, incredibile. Un’azione bellissima: Verratti prende palla in mezzo, la gioca in diagonale verso di me e io, guardando la mia porta, faccio un tocco così [mimando il gesto e la traiettoria del passaggio, con le mani] tra i due difensori; lui parte da dietro, la prende anticipando il portiere, la tocca così [segno dello scavetto di esterno], fa un gol pazzesco [in realtà il gol l’ha fatto Cavani, nda]».

Anche a Palermo sei stato parte di terzetti/quartetti offensivi belli da vedere.

«Sì, oltre a Cavani a Palermo ho giocato con Miccoli, Ilicic, Abel Hernandez e tanti altri che erano forti tecnicamente. Quando siamo arrivati io e Ilicic, strani come eravamo, alti, magri, uno destro e uno sinistro, la gente chissà cosa pensava. Non ho mai riguardato una partita intera di quel Palermo, però adesso mi sta venendo voglia, sai? Quell’anno con Ilicic, Abel Hernandez e Miccoli facevamo delle giocate che veramente erano un piacere per gli occhi. Anche quando non portavano a niente, la gente pensava: ma che hanno fatto questi? Siamo cresciuti insieme, e a me è sempre piaciuto che quelli intorno a me facessero bene. Il mio gioco era così, era molto collettivo, sempre. I terzini li facevo giocare bene, perché avevo quell’uno-due, quel passaggio alto quando facevano quel movimento lì. Non facevo le cose per me, mi interessava poco, il mio gioco era connettermi con gli altri».

Quel Pastore nel calcio di oggi come si troverebbe?

«Sarebbe cresciuto in un contesto diverso, difficile dirlo. In questi anni è cambiato tanto il calcio, e già durante il mio percorso l’ho visto cambiare. Io quelle giocate con i compagni piano piano le potevo fare sempre meno, è diventato tutto palla al piede, correre, uno contro uno. Oggi ci sono spazi diversi, movimenti diversi, vogliono tutti la palla sui piedi, e per me è stato abbastanza difficile adattarmi. Ero abituato a giocare tante palle sulla corsa per i terzini, per l’attaccante, a creare spazi per i loro movimenti».

Senti che la direzione del gioco ti ha penalizzato, a un certo punto?

«Sì, un po’ sì. Anche per questo le mie qualità hanno cominciato a essere meno importanti durante la partita: serviva meno il gioco collettivo di Pastore, si cercava direttamente l’uno contro uno degli attaccanti, quindi al posto mio magari entrava qualcuno più forte in difesa. E anche questo mi fa pensare: perché provare a tornare, se si gioca in modo così diverso?».

Chi è che ti potrebbe convincere?

«Angel Cappa! [ride] No, a parte me, il calcio di oggi è difficile, fisicamente soprattutto: devi essere un ottimo atleta, se no è difficile avere possibilità di giocare. Non lo dico io, è così. Guarda James Rodriguez: in nessun club in Europa è riuscito a giocare con continuità, e se ne è andato via. Anche Ozil, oppure…».

Indovino: Riquelme.

«Certo. Figurati, dove potrebbe giocare oggi? Questi numeri 10 non li vedi più. Ci sono quelli che si sono adattati: veloci e forti uno contro uno, come Di Maria, che giocava in mezzo al campo ed è diventato un’ala, e può andare avanti fino a 40 anni. Altrimenti ne vedi sempre meno. Far giocare bene i compagni, stare sempre con la testa alta, creare spazi per gli altri: sono sempre aspetti importanti, ma non come prima. Il 90% dei calciatori oggi giocano tutti nello stesso modo».

Nostalgia?

«Non vedere più questi giocatori è un peccato per chi ama il calcio, sì. Penso che sia un po’ meno bello da vedere di quando ho iniziato io, tutti i giocatori fanno le stesse cose: corrono, testa bassa, palla al compagno davanti a te… non vedo più quelle giocate di istinto, quell’improvvisazione, e il calcio diventa meno divertente quando non vedi più giocate che ti sorprendono».

Guardi meno calcio di un tempo?

«No, guardo ancora tante partite dei campionati europei. Quando posso guardo sempre le squadre in cui ho giocato: Palermo, Paris Saint-Germain, Roma, Elche, mi piace seguirle. In TV e non solo. A Madrid poi vado tantissimo allo stadio – Atletico, Real, Getafe, Rayo – e oggi che ero qui a Milano ad esempio sono andato a vedere Monza-Frosinone Primavera: c’era lì il mio procuratore e mi ha fatto piacere. Però in generale mi diverte meno di prima, sì».

D’altronde sei un “maleducato del calcio”, come diceva Maradona. Un maleducato che gli piaceva molto quando era CT dell’Argentina, ti ha portato in Nazionale che eri ancora giovanissimo.

«Sì, in quella squadra, con Messi e tutti gli altri campioni che trovavo ogni volta: è incredibile aver iniziato così con la Nazionale. Diego mi ha dato subito tanta fiducia, avevo 19 anni, e lui dopo ogni allenamento mi parlava, mi chiedeva come stavo, mi dava consigli. Mi diceva: «Sei in Italia, è una bella occasione per te, ne devi approfittare: gli italiani sono bravi, ti vogliono bene, ti daranno delle cose… ma stai attento anche, fai questo, non fare quello, guarda alle persone che hai intorno, ricordati che in Italia si vive di calcio, soprattutto in città come Napoli e Palermo», e cose del genere. Era molto attento a me, soprattutto a livello personale».

Aveva paura che perdessi la rotta?

«Lui era venuto a fare una carriera in Europa prima di me, prima di tutti quelli che giocavano in Nazionale con me, e sapeva di aver fatto tanti errori, tante scelte sbagliate. Ci voleva aiutare, come uomo prima che come allenatore. Sono stati insegnamenti importanti per me».

Com’è essere allenati da una leggenda?

«Solo vederlo lì era una spinta in più per noi. Quando ci parlava, noi avevamo una voglia incredibile di uscire e dare tutto in campo. Io avevo quella sensazione: non importava ciò che diceva, era proprio la sua essenza, il suo stare lì, il rispetto che avevano tutti nei suoi confronti. Non ho visto con nessun altro allenatore un’atmosfera simile. Nessuno ha creato le sensazioni che ho vissuto in quella squadra».

A proposito di allenatori: tu hai giocato con un po’ di futuri allenatori, due in particolare di grande attualità in questi giorni, Thiago Motta e Daniele De Rossi.

«Li sto seguendo e mi fa tanto piacere che stiano andando bene, sono due amici e due belle persone; ma non è una sorpresa per nessuno, anzi, credo che se lo aspettasse chiunque ci abbia giocato insieme. Hanno caratteri e modi di comunicare diversi, ma entrambi sono sempre stati amati e rispettati in ogni spogliatoio e società, ovunque. Vedevano le cose da allenatori già mentre giocavano: capivano sempre prima quello che stava succedendo, spiegavano le posizioni sul campo, sapevano parlare con i compagni con i modi e le parole giuste. Si vedeva, davvero».

Thiago Motta è l’oggetto dei desideri di tante grandi squadre.

«Giusto che sia così, sta facendo benissimo. Mi piace molto il suo modo di far giocare le squadre, ci rivedo le sue idee in campo, e il Bologna è davvero bello da vedere: vuole controllare il gioco, non ha paura di prendere iniziativa, di portare tanti giocatori in attacco, e magari di subire gol. È stato un anno incredibile per il Bologna, e sarebbe bello se Thiago Motta restasse anche l’anno prossimo, con la Champions League… vediamo che scelta farà, sono curioso anche io. Da fuori non sai mai cosa può pensare una persona sul proprio percorso, e lui è uno che ha sempre preso le sue decisioni con lucidità. È alle prime esperienze, ha appena iniziato, non credo che abbia fretta. Può decidere con serenità, insomma».

E De Rossi?

«Daniele è arrivato a Roma che la situazione era abbastanza un disastro, la squadra giocava male, ma da una settimana all’altra è cambiato tutto. So che è in un posto dove gli vogliono bene tutti, da chi pulisce il centro sportivo al presidente, e in questi mesi ha fatto sicuramente un ottimo lavoro. Come dicevo, però, non mi ha sorpreso: io ho fatto l’ultimo anno a Roma con Daniele, che ancora giocava ma era un allenatore dentro il campo. Ricordo ad esempio quando era appena arrivato Kluivert, che non stava giocando bene ed era un po’ in difficoltà. Gli veniva detto di fare questo, non fare quell’altro, gli si chiedeva tanto, ma nei modi sbagliati… era molto giovane, aveva 19 anni, e arrivava da un altro Paese e un altro modo di giocare a calcio: il modo in cui gli si parlava era sbagliatissimo secondo me, e di sicuro con lui non stava funzionando. Allora Daniele andava da lui dopo gli allenamenti, gli parlava con un tono diverso, e Kluivert capiva le cose. Si vedeva che sapeva rapportarsi ai compagni come un allenatore».