Alberto Malesani è l’ultimo allenatore italiano ad aver vinto con un club italiano in Europa ma il calcio per lui appartiene ad un’altra vita. Adesso c’è il vino e l’azienda di famiglia, La Giuva, che porta avanti un rapporto indissolubile con le sue radici e la sua terra. L’ex allenatore di Fiorentina, Modena, Palermo, Udinese, Siena e Bologna è stato molto apprezzato per diverso tempo per la modernità delle sue idee e per il modo in cui faceva esprimere le sue squadre: nel 1999 era secondo solo ad Alex Ferguson e Valerij Lobanovs’kyj nella classifica dei migliori allenatori UEFA. L’apice della sua carriera è arrivata a cavallo dei due millenni al Parma, quando i ducali vincono 3 coppe nell’arco di 4 mesi: la Coppa Italia, la Supercoppa Italiana e la Coppa UEFA; ultimo trionfo di una formazione italiana nella competizione.
L’ex rosanero ha rilasciato un’intervista a “FanPage.it” ecco qualche estratto:
Malesani, l’idea di investire in un’azienda vinicola nacque dopo una trasferta a Bordeaux nel 1999: ci racconta questo momento? «Lì ho preso la decisione, ma avevo già messo le basi prima. Io sono sempre stato vicino al mondo del vino, essendo cresciuto in queste zone e perché era la passione del mio papà. Lì si è concretizzata un’idea che mi aveva sempre affascinato».
La sua ultima esperienza in panchina al Sassuolo durò solo 5 giornate: come la racconterebbe a distanza di anni? «Era l’occasione per portare avanti le mie idee calcistiche in un club importante, che alla lunga ha mostrato il suo valore con delle basi solide e persone preparate. Purtroppo cinque giornate sono poche ed è difficile far vedere ciò che si ha in mente. Ma è la velocità del calcio, che va più forte di ogni altra azienda e se non si ottengono risultati subito si va incontro a queste cose. Nel momento in cui si fanno dei resoconti è difficile farli in maniera completa, perché a Sassuolo dopo quelle 5 gare, in cui avevamo affrontato squadre più forti, andavamo a Bologna contro una pari livello. Ma non mi sono mai aggrappato a queste cose nella mia carriera. Non ho nulla contro il club e lo ritengo un’occasione persa per esprimere ciò che avevo dentro».
È sempre stato una persona vera, ma il calcio italiano è un posto per persone vere? «Direi di sì, perché se parli chiaro e sei fedele al tuo pensiero non ti contraddici mai. Questo è importante soprattutto per chi è esposto mediaticamente, come accade nel calcio: essere se stessi è sempre la cosa migliore. Se uno è di natura ‘lamentone’ lo sarà anche come allenatore. Lo stesso anche se uno è sanguigno».
Se ripensa agli anni chiave della sua carriera, c’è una scelta che non rifarebbe? «È dura! Nel momento in cui ero all’apice, e venivo fuori da tre anni di Parma con trofei, forse non avrei dovuto accettare la panchina del Verona. Avrei dovuto avere pazienza e aspettare una panchina di pari livello, non fare un passo indietro per tornare a lottare per la salvezza. In realtà, però, non so neanche se sia così corretto fare questo discorso adesso: ho deciso di andare al Verona, dopo essere cresciuto nel Chievo, e ho deciso col cuore. Per vincere bisogna avere la squadra forte, questo penso sia chiaro a tutti, e se vuoi vincere devi avere in mano del materiale importante. Quando si arriva ad un livello e si fa un passo indietro, poi non è facile ritornare di nuovo lì. Il cuore ha prevalso sulla razionalità, ma non ho nessun rammarico. È la vita che va così».