Ex rosa, Ilicic: «Dopo la pausa Covid ho sofferto troppo»
Josip Ilicic, icona indiscussa dell’Atalanta, si è seduto con AS alla vigilia di una sfida cruciale contro il Real Madrid. Con una carriera brillante alle spalle, il giocatore sloveno ha affrontato non solo avversari sul campo ma anche battaglie personali lontano dai riflettori, segnate dall’arrivo della pandemia che ha colpito duramente il mondo intero e ha lasciato cicatrici profonde anche nel cuore di Ilicic. Ora, trovandosi nella tranquillità di casa, Josip riflette su una carriera straordinaria che ha visto il suo apice proprio con l’Atalanta, una squadra che ha contribuito a trasformare in un fenomeno europeo sotto la guida di Gasperini. Il giocatore ripercorre il momento storico del suo poker al Valencia in Champions League, poco prima che il Covid fermasse tutto, un evento che ha segnato sia il culmine che un punto di svolta nella sua carriera. In questa conversazione intima, Ilicic non solo parla di calcio, ma apre anche il suo cuore riguardo le decisioni difficili prese durante la pandemia, il ritorno alle radici e la vita fuori dal campo, dimostrando come il calcio sia tanto un gioco di squadra quanto un viaggio personale di crescita e scoperta. Nel dialogo con AS, Ilicic mostra un sorriso sincero e un’umanità che lo hanno reso tanto amato dai tifosi quanto rispettato dai colleghi.
Come va? «Bene, tra una settimana finiamo il campionato e mi prenderò una pausa. Quest’anno è stato lunghissimo, non ci siamo fermati! Mi sento vivo, desideroso di giocare. E questa è la cosa più importante».
Tornato a casa ha chiuso un cerchio. «Mi è mancato tutto. Arrivò un punto in cui non sentii più il bisogno di giocare ad alti livelli e decisi di portare la famiglia a casa. Ho due ragazze a cui manca parlare la nostra lingua e la famiglia è la cosa più importante. La verità è che non sopportavo più tanta pressione, giocando ogni tre giorni. Dopo la pausa COVID ho sofferto troppo. Non ero più lo stesso e sentivo in cuor mio che era arrivato il momento di dire basta. Avevo promesso di tornare il giorno in cui sarei partito da Maribor e l’ho mantenuto. Sono cresciuto qui e mi sono divertito. Anche se il livello del calcio è incomparabile, sono felice».
Ed è riuscito a tornare in Nazionale. «Mi ero preso una pausa per recuperare fisicamente, ma avevo l’obiettivo di tornare. Sentivo di potercela fare, stavo bene mentalmente e quando è così posso fare qualsiasi cosa. A 36 anni sento ancora di poter dare qualcosa in più».
Ha scelto di tornare, ma aveva altre proposte. «Sì, tra questi quello del Siviglia. Monchi mi ha chiamato e io sono stato sincero con lui: ‘Mi dispiace, non voglio venire lì per guadagnare soldi e non contribuire con nulla (a causa della sua condizione)’. Mi ha ringraziato».
E, nonostante ciò fosse prima, alla sua porta ha bussato anche Ancelotti, no? «Quando ero a Napoli, sì. Era praticamente fatto. Ma alla fine l’Atalanta ha deciso di non lasciarmi partire. Per loro era fondamentale. Avevo già accettato l’offerta. Ho parlato con l’allenatore, mi ha detto due o tre parole sul calcio… e poi mi ha parlato della vita. Mi raccontò cose di Napoli: ‘Dai, vieni, andiamo a mangiare, a bere…’. (Sorride) E’ una cosa fondamentale, perché sei un uomo prima ancora che un calciatore. Ne aveva parlato anche con Mertens e con il ds Giuntoli. Ero convinto, volevo andare lì per vincere il campionato e giocavo molto bene, fisicamente ero un animale».
E rimase per continuare a fare la storia. Cosa rappresenta per te l’Atalanta? «È una squadra che resterà sempre nel mio cuore, come il Palermo. I Rosanero mi hanno dato l’opportunità di brillare nel calcio italiano; La Dea mi ha permesso di fare partite grandissime, indimenticabili. Raggiungere quei livelli con un club piccolo è incredibile. Noto ancora l’affetto delle persone, mi mancano tanto e vorrei visitare di più Bergamo».
Pensi di poter vincere lo scudetto? «Sono molto convinto. Conosco il calcio dell’allenatore, ha costruito la squadra passo dopo passo e loro giocano meravigliosamente. Non è facile vincere l’Europa League e spero che vincano anche lo scudetto , ma se non quest’anno sarà nei prossimi due o tre. Continueranno a combattere.»
Lì ha vissuto momenti straordinari. Il poker con il Valencia, forse, è stato il migliore. «La vergogna è che dopo quella partita si fermò tutto. È stato il momento più bello della mia carriera, ma così è la vita e non mi biasimo per nulla. Abbiamo sofferto tutti quell’anno e non tornerei indietro. Quello che doveva succedere è successo e posso tranquillamente dire che ho dato il massimo. Ho ancora la palla di quella notte.
Senza il COVID sarebbe durato più a lungo nell’élite? «Cominciavo a sentire qualcosa di diverso dentro di me. Non ne potevo più. Se non stai bene mentalmente, non puoi durare fisicamente. E se non posso dare il massimo, preferisco fare un passo indietro. Non ha accettato di stare in panchina e il calcio non è solo una questione di soldi. Altrimenti sarei andato in Cina o in Arabia Saudita. Il calcio è amore. Da quando ho iniziato a camminare, la palla è sempre stata con me.
Anche se prima della finale è tornato a casa nel 2020. «Dopo un mese di confinamento ho chiesto al club di uscire. Soffrivo troppo senza la mia famiglia. Una volta arrivato lì ho capito che era quello di cui avevo bisogno e che il calcio non faceva più per me. Giocando ogni tre giorni sei sempre in viaggio, non hai una vita privata e non potevo accettare che la mia famiglia mi vedesse soffrire. Mi sentivo di nuovo ‘bambino’, per essere felice».