In una lunga intervista rilasciata alle colonne de “Il Giornale di Sicilia” Carlos Embalo si racconta a 360°. Di seguito alcune parole del guineano sulla sua infanzia: «Quando ero piccolo giocavo davanti casa nostra, uno spiazzo che era il nostro stadio. C’era solo un pallone e spesso era sgonfio, ma ognuno di noi inseguiva il grande sogno. Non avevamo scarpe da calcio, giocavamo con i sandali di gomma con cui si va sugli scogli. E quando si rompevano non tornavamo a casa, avremmo preso botte. Ma non importava, tutti quanti sapevamo cosa ci aspettava, cosa avremmo patito restando in Guinea. Tutti quanti sognavamo l’Europa, la Serie A, la Liga, il campionato portoghese. Ma servivano fortuna e sacrifici. Se sono veloce lo devo anche ai macachi. Si, alle scimmie. Insieme ai miei amici giocavamo ad inseguirle. Vinceva sempre chi le prendeva per primo ed ero sempre io. Nella zona dove abito io c’erano molti serpenti, anche a sonagli. Spesso trovavamo queste sorprese quando la palla finiva nella sterpaglia o nelle paludi. Una volta un pitone mi si attorcigliò al corpo, rimasi paralizzato. Per fortuna i miei amici lo spaventarono con le loro urla e mi lasciò andare. Guerra civile? Avevo quattro anni, capivo poco ma non dimentico quello che è successo: durante quel periodo per quattro mesi rimasi separato dai miei genitori. Poi per fortuna riuscimmo a ricongiungerci. Nel 2012 ho perso mio padre, l’anno scorso prima di Natale è morta anche mia madre. Era un venerdì, la telefonata mi arrivò nel cuore della notte, sarei voluto tornare subito in Guinea, ma era impossibile. Non c’era modo per farlo. Decisi di giocare contro il Bari, lo feci per mia madre. Quel giorno giocai la partita più bella della mia carriera, fu lei a guidarmi in campo. La prima scuola calcio era ad un centinaio di chilometri da casa, per arrivarci dovevo aspettare che qualcuno mi desse un passaggio con un camion e con un auto. E quando tornato a casa, esausto, spesso non trovavo niente da mangiare. La seconda era più vicina, per arrivarci bastava mezz’ora. Per andare all’Etoile Lusitana (Senegal), affrontavamo un viaggio interminabile dove eravamo stipati in una specie di Panda: da Biassau a Dakar dodici ore con temperature vicini ai cinquanta gradi e senza aria condizionata. Per undici mesi rimasi solo ad allenarmi, volevo tornarmene a casa come avevano fatto gli altri miei amici, ma mia madre mi disse che ormai ero uomo e che dovevo inseguire il mio sogno. Piansi tante volte, però non scappai e giocai anche il primo torneo in Europa».