«Dio ci dà un dono, ma poi quel dono va lavorato. Ne ho visti tanti di fenomeni nei settori giovanili, ragazzi di cui dicevano: “Se solo avesse avuto la testa, avrebbe potuto essere Maradona o Messi”. Ecco, io ho lavorato soprattutto per evitare questo. Pallone d’Oro? Quando ci riunivamo intorno al fuoco, da bambini, d’estate con i miei amici, espressi il desiderio di vincere il Pallone d’Oro. Vincerlo sarebbe un messaggio importante per tanti bambini, per tutti quelli che nati in un piccolo posto lontano dai grandi centri possono sperare di poter raccontare una storia simile alla mia. Italia? Mi è stato chiesto di vestire l’azzurro e sono stato molto grato. Avevo 19 anni e rispondere “no, grazie” fu dura: sono argentino, sarebbe stato un inganno. Infanzia? Mio padre, Adolfo, è morto per un tumore, quando avevo 15 anni. Fu un dolore fortissimo, nei mesi precedenti non riusciva più a venirmi a trovare e il club mi fece andare a casa per un po’ di tempo. Sei mesi erano troppo pochi e mi venne la tentazione di mollare tutto. Forse un giorno lo ritroverò o forse no, a papà, però, penso sempre e gli dedico tutti i miei gol. Quando abbiamo un pallone tra i piedi, noi calciatori siamo felicissimi. Quello che succede dietro, nel retropalco, spesso non è proprio bellissimo». Queste le parole rilasciate da Paulo Dybala, attaccante della Juventus, ai microfoni di “Vanity Fair”.