“De Bellis guardi questa figurina. Maglia rosanero a strisce verticali, il bottoncino che chiude il colletto nero. Lo sguardo impettito e il ciuffo. Cosa le ricorda? «I bei tempi. Momenti indimenticabili di una vita vissuta per il Palermo e per il calcio. Un calcio molto diverso da quello attuale». Diverso in cosa? «C’erano più tifosi vicini alla squadra. Era più seguito e le persone, le partite le vedevano allo stadio e non in poltrona alla tv». Che significava essere calciatore? «Eri responsabile verso una intera città. Cercavi di fare bella figura per far fare bella figura a Palermo. Io mi sentivo responsabile anche verso la società che aveva speso tanti soldi per me». Tanti quanti? «27 milioni di lire e, all’epoca, era una bella cifra. I soldi furono poi recuperati con la cessione al Venezia per 49 milioni». Quanto guadagnava? «3 milioni e mezzo di lire all’anno. Anche quella era una bella cifra. E dire che tutto stava per saltare per un equivoco» Cosa successe? «Quando arrivai a Palermo ero praticamente un bambino. Pesavo 67 chili per un metro e 72 centimetri di altezza. All’incontro con Vilardo mi accompagnò mio fratello Filippo. Anche lui giocava a calcio ed era un marcantonio. Quando entrammo nella stanza del presidente diedero il contratto da firmare a mio fratello pensando che fosse il De Bellis giusto. Filippo disse: “Guardi che Tonino è lui”. Mi credettero un bidone». Invece iniziò la storia d’amore con Palermo. «Qualche tempo dopo sarebbe iniziata anche quella con mia moglie Giusy che mi fece innamorare ancora di più della città». Come vi siete conosciuti? «La domenica, prima di andare a pranzo pre gara con i miei compagni, andavo a seguire la pallavolo. Un giorno vidi questa ragazza e mi colpì subito. Chiesi a Giulio Riela, un amico della pallavolo, di farmela conoscere. Mi invitò a una festa e me la presentò. Così nacque il nostro amore». Da quanto tempo va avanti? «56 anni. 4 di fidanzamento e 52 di matrimonio. Tutti pensavano che andando a Venezia sarebbe finita e invece eccoci qui». Oggi i calciatori sposano le veline e le loro fidanzate le conoscono in discoteca. «Le discoteche c’erano anche ai miei tempi però noi non le frequentavamo». Colpisce il fatto che lei andasse alla pallavolo poche ore prima di scendere in campo con il Palermo. E il ritiro? «I ritiri non c’erano. La mia ansia la scaricavo vedendo la pallavolo». C’erano però i ritiri pre campionato. «Sì, duravano 45 giorni. Stavi lontano da casa, ma era conveniente perché per 45 giorni pagava tutto la società». Che vita facevate in città? «Normalissima. Dormivamo allo stadio nelle stanze destinate ai calciatori. Colazione, pranzo e poi al campo per l’allenamento. Alle 21,30 tutti a nanna perché c’era la ronda dell’allenatore che ti controllava». In campo lei era considerato un duro. «Ero uno che non si tirava mai indietro e il mio impegno era massimo». Però, se c’era da picchiare, picchiava. «Non picchiavo. Ero deciso. Non avevo paura. La gente mi voleva bene per questo». A guardarla bene devono avere picchiato anche lei «Ancora oggi ne porto i segni. Un ginocchio che mi dà fastidio e mi fa zoppicare, regalo di una entrata di Baldini a Como». Quanto è stato fermo per quel ginocchio? «Ma quale fermo. La domenica giocavo regolarmente. A quei temi c’erano solo bende e massaggi. Stringevo il ginocchio con una fascia elastica e giocavo. A fine partite avevo il ginocchio enorme». Dopo il ginocchio il naso? « A Monza mi ruppi il setto nasale ma continuai a giocare. Mi mettevano il cotone idrofilo nel naso e via». Adesso le trasferte si fanno in business, voi come viaggiavate? «In treno. Quaranta ore di treno prima di giocare. Poche volte abbiamo preso il Dc3». Oggi le telecamere entrano negli spogliatoi. Ai suoi tempi sarebbe potuto accadere? «Sta scherzando? Lo spogliatoio era sacro. Non entrava nessuno. Le interviste si facevano fuori dallo stadio, ma con i giornalisti c’era un rapporto vero. Con molti di loro sono poi diventato un buon amico» Barbera è stato il “suo” presidente? «Più che altro è stato un padre. Per noi si è rovinato. Quando andavi da Barbera perché mancavano gli stipendi lui ti dava i soldi di tasca sua per poter vivere». Da calciatore ad allenatore. «Volevo rimanere nel mondo del calcio, ma è stata una delusione. Da giocatore dipendi da te stesso, da tecnico dalle prestazioni della squadra». L’ultima sua esperienza è stata nel Palermo dei “Picciotti”. Come la ricorda? «Bellissima. C’era un’atmosfera unica. Ero il vice di Arcoleo che oggi mi chiama fratello». L’avversario più difficile? «Quelli più tosti li davano a me. Però, uno come Riva con me non ha mai segnato». Ha coltivato qualche passatempo? «Adoro il teatro. Sono abbonato al Biondo e vedo tutto quello che c’è in cartellone». Oggi il Palermo naviga in cattive acque. Cosa direbbe a Zamparini? «Non lo conosco, ma gli direi soltanto che questa città che merita più di quello che ha»“. Queste le parole dell’ex calciatore e allenatore rosanero Antonio De Bellis, intervistato dai microfoni de “La Repubblica”.