L’edizione odierna de “Il Corriere dello Sport” si sofferma sul Manchester City che finisce nei guai.
Quattordici anni di spese immense, per un totale di circa 2,2 miliardi di euro. Al netto delle cessioni, un passivo che comunque arriva al miliardo e mezzo. Ma anche sei campionati inglesi, due Coppe d’Inghilterra, sei Coppe di Lega e una finale di Champions League persa contro il Chelsea nel 2020-21. Queste le cifre della gestione del Manchester City targata Abu Dhabi. E, naturalmente, un marchio che è cresciuto diventando uno dei colossi del calcio mondiale. Che la famiglia reale di Abu Dhabi non avrebbe badato a spese lo si è capito ben presto. Già nel 2008-09, ecco Robinho (43 milioni) e Jo (24), seguito a ruota l’anno dopo da Tevez (29), Adebayor (29), Lescott (27,5) e la stagione seguente ecco Dzeko (37), Yaya Touré (30), Balotelli (29.5), David Silva (28,8) e Kolarov (24).
Insomma, fortissimi investimenti per un club che, pur in crescita, non era certo a livello di brand un Manchester United o un Real Madrid. E uno stadio – il City of Manchester, poi noto come Etihad – che spesso si riempiva, è vero, ma con prezzi popolari (almeno per gli standard inglesi). Eppure i conti erano spesso in utile, anche a livello di Fair Play Finanziario. Sanzionato nel 2014 (ha patteggiato) e poi di nuovo nel 2020 (questa volta per avere falsato i conti, due anni di squalifica poi ribaltata dal Tas). E così, via con le spese. Quest’anno Haaland (60) e Philips (49), l’anno prima Grealish (117, record inglese), prima ancora Ruben Dias (71,6) ed Aké (45,3). Il tutto, naturalmente, con un monte-ingaggi che cresceva ogni anno, sempre tra i primissimi d’Europa. Troppo bello per essere vero, secondo l’accusa. No, frutto di un brand gestito in maniera esemplare e di nuovi mercati conquistati, ribatte la difesa. A decidere sarà la commissione indipendente della Premier League.