Corriere dello Sport: “Lucescu: «Il calcio tiene viva l’Ucraina»”

L’edizione odierna de “Il Corriere dello Sport” si sofferma sulla Guerra in Ucraina e le parole di Lucescu.

Il calcio al tempo della guerra è «un qualcosa di atroce» che sperava proprio di non dover vivere. «Nella mia carriera prima da giocatore e poi da allenatore me ne sono successe di tutti i colori, ma di un’esperienza simile avrei fatto volentieri a meno perché è la più terribile di tutte». Dall’altro capo del telefono, tramite Whatsapp, la voce di Lucescu è forte, chiara, addirittura energica. Quasi non c’è bisogno di domande: è questo rumeno di 76 anni che conosce il pallone come le sue tasche a raccontare i bombardamenti di Kiev, il dramma di un popolo e la fuga a Bucarest per cercare un campo di allenamento per la sua Dinamo. Mircea è nato negli ultimi giorni di un altro conflitto, la seconda guerra mondiale, e dal 1945 a oggi è diventato cittadino del mondo lavorando prima in Italia, tra Pisa, Brescia, Reggiana e Inter, e poi in Ucraina dove è arrivato per la prima volta nel 2004. Ha il cuore a pezzi per quello che ha visto, per i racconti che gli arrivano e per le immagini televisive del massacro di Bucha, ma va avanti facendo quello che sa fare meglio: l’allenatore di calcio. «Perché il pallone può e deve rotolare anche quando esplodono le bombe».

Lucescu, perché allenarsi e cercare di giocare amichevoli con la sua Dinamo Kiev in questo momento terribile per il popolo ucraino? «Non lo facciamo solo per noi, ma soprattutto per gli ucraini che sono in patria. Lì non hanno più niente: niente lavoro, a volte niente cibo, riscaldamento ed elettricità; solo guerra e resistenza per ottenere la libertà. Nelle città sotto assedio dei russi c’è gente che muore o che soffre e il pallone può essere per loro un collegamento tra l’inferno che stanno vivendo e il ritorno alla normalità che speriamo avvenga prima possibile. C’è bisogno che il calcio non si fermi in Ucraina, che porti in giro il messaggio di un popolo che non si piega. Anche se il campionato è fermo e i playoff per i Mondiali distanti ancora due mesi. Vi ricordate la pandemia e i mesi più difficili, a marzo 2020?».

Certo che li ricordiamo. «Come vi sentivate quando poi il campionato italiano è ripreso a giugno, anche se solo a porte chiuse? Le persone stavano davanti alla tv e, anche se i morti a causa del virus erano stati moltissimi, vedevano nella ripartenza dello sport uno spiraglio di ritorno alla normalità. Lo stesso facciamo noi e lo Shakhtar Donetsk: ci alleniamo e speriamo di giocare amichevoli importanti perché vogliamo che gli ucraini mantengano un legame con le loro squadre. Portiamo a giro per il mondo il dramma di un popolo che è stato attaccato, ma che non molla. Manca il cibo e c’è paura per le bombe che piovono dal cielo, ma il coinvolgimento emotivo che solo il calcio può dare è importante per chi lotta per la vita. Ora la normalità è un lontano ricordo, ma prima o poi l’orrore della guerra sparirà. Nel frattempo lo sport tiene unite le persone nei momenti più bui, crea un collegamento tra chi è fuori dall’Ucraina e chi è dentro a lottare per la libertà».

Cosa possono fare le squadre europee per aiutarvi? «Giocare delle amichevoli con la mia Dinamo Kiev. La prima la disputeremo il 12 contro il Legia Varsavia, ma ne abbiamo altre 2-3 da confermare con la Dinamo Zagabria, la Steaua Bucarest e il Sion, il cui presidente è stato eccezionale fin dal primo momento. Spostarci non è un problema perché ci adattiamo ai voli low cost. Piuttosto ci aspettiamo l’aiuto delle grandi squadre europee. Non solo per tenere in allenamento questi ragazzi che, per la maggior parte, dovranno disputare insieme a quelli dello Shakhtar i playoff per i Mondiali. L’altro obiettivo è disputare partite a scopo umanitario, gare utili a reperire attraverso gli incassi e i diritti tv i fondi da devolvere ai bambini ucraini che soffrono per la guerra».

Impossibile che qualcuno si rifiuti di giocare contro la Dinamo per una causa così nobile. «Nessuno si rifiuta, anzi, tutti vorrebbero disputare con noi un’amichevole, ma i campionati sono in un momento chiave e le coppe europee sono ancora in corso di svolgimento. Abbiamo la possibilità di sfidare l’Atletico Bilbao e ho parlato con il Milan che a fine stagione ci ha promesso disputerà una gara con noi. Mi piacerebbe anche affrontare la Roma che però adesso ha il calendario pieno a causa della Conference League».

Ha chiamato Mourinho? Conoscendo lo Special One farà di tutto… «Spero di parlarci e di organizzare un match a Roma. Giocare nelle grandi città è fondamentale per calamitare l’attenzione delle nazioni in cui andiamo. Ho ottenuto la disponibilità pure del Psg, che ci inviterà a Parigi magari dopo aver vinto matematicamente la Ligue 1, del Barcellona e di Guardiola che, quando sarà terminata la Premier, ci aspetta. Se avesse potuto, avrebbe organizzato domani, ma tra campionato e Champions, il City non ha un giorno libero».

Il grande calcio europeo insomma non vi ha lasciato soli. «Grazie a Dio no. La stessa cosa la farà lo Shakhtar Donetsk che doveva venire qui a Bucarest ad allenarsi con noi e che invece ha preferito andare in Turchia. Magari ci ritroveremo nello stesso posto tra qualche settimana. C’è da tenere allenati questi ragazzi che dovranno giocarsi l’accesso al Mondiale, ma soprattutto dare la giusta immagine al mondo di due squadre ucraine che giocano per il loro Paese nonostante in patria siano rimasti genitori, parenti e amici».

Dove vi state allenando? «A Snagov, vicino Bucarest. Io sono andato via da Kiev insieme al mio staff a fine febbraio, per cercare un posto dove far lavorare la squadra che nel frattempo, dal nostro centro sportivo a 25 chilometri dalla capitale, si era spostata a ovest, lontana dalle bombe che iniziavano a cadere. Ho girato tanti campi, ma logisticamente è stato tutto complicato perché c’era bisogno di spazio anche per le nostre giovanili. Per prima ho sistemato l’Under 19 che domani in Youth League sfiderà lo Sporting Lisbona: fondamentale è stato l’aiuto del presidente della Steaua che è stato il più disponibile di tutti. Poi ho individuato questo centro sportivo a Snagov che siamo riusciti a sistemare a tempo di record: cinquant’anni fa era usato dalla nazionale rumena, ma da allora non c’era più stata una formazione di calcio perché è stato adibito al canottaggio olimpico. La direttrice è una mia parente ed è stata brava a organizzare tutto creando le condizioni per accogliere una squadra di un certo livello come la nostra. Abbiamo dovuto mettere a posto il terreno di gioco e da venerdì scorso i miei giocatori sono qua, tutti meno i quattro stranieri che per due mesi sono andati in prestito in squadre europee e brasiliane. I ragazzi hanno portato con loro le mogli e i bambini, ma, se con la testa si sforzano di concentrarsi sul lavoro quotidiano e sulla vita che stanno facendo, con il cuore sono accanto ai loro parenti che hanno lasciato in patria. Ora abitano in appartamenti affittati qui vicino a Snagov e, pur tornando a cena la sera a casa, vivono una specie di ritiro. Anche loro però, prima che calciatori, sono esseri umani: sanno quello che sta soffrendo il popolo ucraino. Domani assisteranno alla gara della nostra Under 19 contro lo Sporting: se vincerà, sfiderà il Benfica, una grande d’Europa, un’occasione in più per mettere il calcio ucraino sotto la luce dei riflettori».

Come avete fatto a organizzare il trasferimento della prima squadra della Dinamo a Bucarest? «La Federcalcio ucraina, la Uefa e il nostro presidente si sono dati da fare, ma ci ha aiutati anche il presidente dell’Ucraina Zelensky. Sa che la nazionale deve giocare questo spareggio contro la Scozia e poi l’eventuale finale contro il Galles: è una persona intelligente e capisce l’impatto che avrebbe per il Paese raggiungere il Mondiale. Ecco perché si è impegnato per consentire ai calciatori di andare all’estero a lavorare. I nostri quando si sono allontanati da Kiev, e si sono spostati più a ovest, al massimo potevano fare palestra e qualche corsa sul campo, ma in quell’atmosfera era impossibile parlare di tattica o di schemi. Le partite vanno preparate in un certo modo e senza il campionato, almeno le amichevoli vanno organizzate».

Parliamo per un attimo, con realismo, di calcio giocato: in queste condizioni quante chance ha l’Ucraina di qualificarsi a Qatar 22? «Tra qualche settimana probabilmente i giocatori di Dinamo e Shakhtar inizieranno a lavorare insieme. Di certo però il diritto di disputare il Mondiale l’Ucraina vuole conquistarlo sul campo, non attraverso un invito della Fifa. Conosco questi ragazzi: amano il loro lavoro e il loro Paese. Daranno più di quello che hanno dentro per regalare una gioia ai connazionali».

Come stanno adesso i suoi ragazzi a livello psicologico? «Li ho rivisti venerdì e abbiamo avuto poco tempo per parlare: mi sono occupato soprattutto delle loro famiglie, di trovare per tutti la giusta sistemazione. Ci sono tante cose da fare. Più fuori che dentro il campo, ma avremo tempo per mettere a posto tutto ora che siamo qui».

I rumeni, il suo popolo, vi stanno aiutando? «Tanto. La squadra avverte la comprensione della gente e questo li aiuta a gestire uno stress incredibile. Non dimentichiamo che si tratta di giovani che finora hanno solo fatto i calciatori e adesso si ritrovano lontano dal loro Paese invaso. A tal proposito, voglio dire una cosa anche per i ragazzi delle giovanili: tante nazioni dell’est Europa si sono offerte di accoglierli, dalla Romania all’Ungheria passando per la Polonia. E’ importate per far continuare la loro attività, per consentire loro di allenarsi. Lo sport li aiuta a vivere e a guardare avanti. Sento una grande responsabilità nei confronti di questi giovani».

Abbiamo parlato della Dinamo, ma poco di lei. Ha avuto paura? «Vivevo al centro sportivo della Dinamo e un giovedì notte, dopo che nel pomeriggio ci eravamo allenati regolarmente in vista del match di Coppa d’Ucraina, ho sentito come dei tuoni in un temporale estivo. Inizialmente, nel sonno, non mi sono reso conto che fossero bombardamenti, ma la mattina mi è stato tutto chiaro: i russi avevano attaccato e quando sono arrivati i giocatori, abbiamo discusso sul da farsi. Non potevamo certo riprendere il campionato come previsto e così le autorità hanno sospeso l’attività. E pensare che ci eravamo preparati in ritiro in Spagna e ad Antalya come altre formazioni ucraine».

Nel 2022 avrebbe mai immaginato una guerra simile? «Mai e poi mai. In Ucraina un po’ di preoccupazione c’era, ma un’invasione russa di questo tipo era impensabile. Vivo da 14 anni in Ucraina (con una parentesi allo Zenit e alla guida della nazionale turca, ndr) e sono legato a questo Paese dove conosco tante persone che sono rimaste nelle città bombardate. Io ho avuto la possibilità di andare all’estero grazie alla mia ambasciata e ho trovato un modo per aiutare la mia squadra, ma tanti ucraini sono rimasti lì. A combattere. Magari dopo aver portato la famiglia al confine, sono tornati indietro…».

Quanto durerà questa guerra? «Temo che sarà lunga e difficile. Per questo chiedo agli stati europei di non lasciare sola l’Ucraina: la solidarietà internazionale deve aiutare un popolo in difficoltà. Attraverso viveri, medicinali, generi di prima necessità, ma anche attraverso il pallone che può dare una speranza a quelli che sono sotto le bombe. Il calcio in tempo di guerra è terribile, ma garantisce un briciolo di normalità, permettere di credere che il futuro sarà migliore. Ecco perché va tutelato e preservato».

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Redazione Ilovepalermocalcio