L’edizione odierna de “Il Corriere dello Sport” si sofferma su Mancini e su quanto successo dopo Palermo.
Fotografie. Una piazza di un posto dell’Est con le bandiere… Non che tra gli azzurri qualcuno fischiettasse ieri sera all’arrivo allo stadio di Konya malinconici motivi lontani. Ma le risate dei giocatori e Roberto Mancini fotoreporter d’eccezione a favore del proprio storico staff schierato, sono le immagini di un cambio di prospettiva che si è compiuto in questi giorni stranianti e che solo giovedì notte era tutt’altro che prevedibile. La storia delle guerre italiane perse come fossero partite di calcio e di sconfitte calcistiche nostrane vissute come guerre, pare riempisse il tumbler di Churchill di compiacimento quasi più dell’amato “Pol Roger”. Lasciamo stare (anche il whisky) soprattutto in tempi bellici davvero cruenti, che poco lontano da qui, a Istanbul, stanno conoscendo una possibile e sperabile via di uscita, pur tracciata dallo sguardo mirato e poco pacificato di Erdogan.
EXIT STRATEGY. Tornando a noi, diciamo che lo stato di crisi apertasi in seno alla Nazionale campione d’Europa e dunque, di riflesso, alla Federazione dopo la sciagurata caduta contro la Macedonia del Nord, aveva bisogno di risposte in tempi certi, scelte precise, risposte coerenti. Ed è stato evidente quasi subito che il nodo non era cambiare Mancini da parte federale ma avere da lui l’ok a rispettare un contratto fino al 2026, firmato lo scorso maggio, prima dell’Europeo. E in quella direzione Gravina si è mosso.
Probabile che se non ci fosse stata in programma la strampalata sfida odierna con la Turchia (il play off tra chi deve essere considerato più eliminato…) magari le cose avrebbero preso un’altra direzione. Perché tornando alla notte del Barbera, non si sbaglia certo a dire che in quel momento Roberto Mancini è stato molto vicino a chiudere il discorso. Sono stati momenti confusi, e non ci riferiamo certo al caos spogliatoio. Pur mai lasciato solo, il ct era evidentemente dentro se stesso davanti a un fatto inconcepibile: «Non saprei cosa dire. Non ci sono spiegazioni. Il responsabile sono io. Giocatori e il presidente qui accanto non c’entrano. E’ la legge del calcio».
Il day after, nella bolla di Coverciano, è stato altrettanto in bilico, anche se la lettura dei giornali e le risposte social gli hanno fatto capire che non poteva essere l’eroe di Londra quello sbagliato in questa disastrosa circostanza. A Roma intanto a via Allegri convenivano solo manifestazioni di consenso alla linea presidenziale. Troppo importante e rassicurante e pur sempre vincente la figura di Mancini, lontanissime le alternative. A quel punto, per evitare che la situazione si annodasse ulteriormente, Gravina ha anticipato l’arrivo a Coverciano, armandosi perfino di poesia («La sconfitta ha qualcosa di positivo: non è definitiva», José Saramago), pur di rincuorare il proprio ct. Che intanto stava rimettendo fuori la testa. I due hanno parlato molto. E non sono state le questioni politiche o la promessa di maggiori responsabilità o nuovi incarichi a ribaltare il discorso.
Anche il ct ha in fondo avuto modo di valutare che eventuali alternative erano senza dubbio faticose da costruire. Chi lo conosce benissimo sa quanto sia per lui importante il piano strettamente personale che ha a Roma la sua centralità. E soprattutto sa quanto il suo orgoglio non gli avrebbe permesso di lasciare dopo una simile sconfitta la Nazionale che gli ha regalato la gioia più grande.