L’edizione odierna de “Il Corriere dello Sport” si sofferma sul perché gli infestitori arabi difficilmente acquistano club italiani.
Le parole con cui Amanda Staveley allontana l’interesse del fondo sovrano saudita per i club italiani fanno pensare: «Abbiamo parlato con Inter e Milan ma la struttura della Serie A è un disastro». Staveley non parla a nome del fondo Pif (uno dei maggiori investitori al mondo) ma agli arabi ha appena fatto comprare il Newcastle e il suo giudizio rivela la percezione di debolezza che il nostro calcio trasmette ai capitali esteri. L’elenco dei ritardi accumulati dalla Serie A, in effetti, è lungo.
Stadi vecchi e fatiscenti non consentono ai nostri club di sfruttare il box office, da cui incassano in media 14 milioni: un terzo degli inglesi (38), metà di spagnoli (29) e tedeschi (28). Anche sui ricavi da sponsor pesa l’incapacità di vendere il nostro prodotto all’estero, mentre il bacino domestico è afflitto dalla ridotta velocità di crescita dell’economia italiana. Nella stagione 18/19 un club di Serie A realizzava in media 34 milioni da sponsor mentre Liga (47), Bundesliga (66) e soprattutto Premier (77) ci battevano nettamente. Se i tedeschi contano sulla forza della loro economia e gli spagnoli sul traino mediatico delle corazzate (Barça e Real), gli inglesi hanno nella Premier il torneo più guardato al mondo, dopo la Champions. Non fu forse casuale l’intervento del governo britannico per stroncare la SuperLega: come ha notato Dario Fabbri di Limes, la Premier è oggi l’ultimo strumento di diffusione della cultura britannica nel mondo. Un veicolo di influenza commerciale e politica, la più evidente risposta al declino dell’Impero e uno strumento per affermarne l’identità.
Non è facile stabilire se la spettacolarità della Premier sia il motore del suo appeal o consegua alla disponibilità dei migliori campioni, garantita dalla superiorità economica dei club. Resta il fatto che surclassa tutti nella raccolta di diritti tv: 174 milioni il fatturato medio per club davanti a tedeschi (82), spagnoli (91), italiani (74). Differenza che si traduce poi in disparità tecnica con cui vincere coppe europee, incassare premi e amplificare ulteriormente gli squilibri economici. Un circolo virtuoso per alcuni, vizioso per altri, con la Serie A intrappolata da quello vizioso.
Perché i club italiani attraggono investitori americani, più che arabi? Occorre capire le diversità culturali e gli obiettivi che muovono il denaro. L’origine dei capitali Usa è un’economia fortemente competitiva: motore della ricchezza è il mercato che, nel secolo scorso, ha selezionato la corporation come l’organizzazione più efficiente per la creazione di valore. La trasparenza del più vasto circuito finanziario al mondo consente ai capitali di scegliere, tra innumerevoli opportunità di impiego, la combinazione ottimale di rischio e rendimento. La cultura dell’investimento è dominata dai ritorni di breve termine perché il capitale è una risorsa scarsa, ha un costo e va dunque remunerato. Nel mondo arabo, fonte della ricchezza è l’estrazione di una risorsa naturale i cui proventi si concentrano nelle mani di pochi appartenenti a classi dirigenti familistiche e rigidamente bloccate. Alcuni stati sovrani hanno accumulato ricchezze inestimabili, da reimpiegare nell’economia internazionale, mancando un sistema produttivo interno capace di generare opportunità. Il costo del capitale è quindi bassissimo, la concorrenza interna inesistente. L’orizzonte è il lunghissimo periodo: occorre che la prosperità si preservi anche quando le risorse naturali saranno esaurite e il calcio è pur sempre una grande passione, diffusa su scala globale e destinata a durare.
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