L’edizione odierna de “Il Corriere dello Sport” si sofferma sul Manchester City e su Guardiola che battendo l’Arsenal hanno riaperto la lotta alla vittoria della Premier League.
Ed ecco il “day after” del “big match” che, alla fine, conferma i pronostici di molti. Questo City, quando gioca come sa, è esponenzialmente più forte dell’Arsenal. Ai Gunners serviva un’impresa all’Etihad – è arrivata invece una bocciatura quasi totale, sia per merito del City che per demerito dell’Arsenal. È finita 4 a 1, nessuno si sarebbe scandalizzato – pensando al tris di occasioni fallite da Haaland nel primo tempo – se i gol fossero stati sei o sette. L’allievo le ha prese dal maestro. Arteta, ex-braccio destro di Guardiola, non ha apportato modifiche allo schema e ai concetti che hanno portato l’Arsenal al primo posto in classifica. Guardiola invece sì. Ecco un 4-2-3-1 che si trasformava in 4-4-2 o addirittura 4-2-4, lontano dal 3-4-2-1, con Stones a fare il Busquets, che si era visto nelle ultime uscite. In altre parole, è stato il Pep a essere umile e ad adattarsi all’avversario, non Arteta. E, forse, anche su questo bisognerebbe riflettere, perché, di solito, non è la squadra più forte sulla carta che si adatta all’avversario.
La tentazione di molti è quella di dire che semplicemente il City è più forte, che ha più esperienza dei giovani Gunners, che veniva da una striscia positiva. Tutto vero. Ma altrettanto vero che Guardiola ha saputo adattare (e in un certo senso stravolgere) la squadra per ottenere un vantaggio contro l’Arsenal. Un pragmatismo che pochi associano a Guardiola, ma che negli ultimi anni è diventato un marchio di fabbrica. E se è vero che a livello individuale il City è più forte, è anche vero che Guardiola ha saputo vincere con Akanji – costato 17 milioni, non sessanta – riadattato a fare il terzino sinistro, ruolo in cui non aveva mai giocato. O che i primi due gol del City sono arrivati con un contropiede – palla spazzata lunga per l’ariete possente che tocca per la scorribanda del trequartista – e una palla inattiva (l’incornata di Stones), insomma, calcio umile ma ben eseguito. Viceversa, Arteta, pur con un Arsenal asfissiato dal pressing del City, ha fatto i primi cambi solo dopo un’ora di gioco, quando era sotto di tre gol.
Arteta non ha cercato alibi, ha ammesso di essere surclassato. E si è aggrappato a quei due punti di vantaggio in classifica che diventano veramente miseri se si pensa che il City ha due gare da recuperare. «Cercheremo di vincere le cinque partite che ci rimangono e vedremo cosa farà il City» ha detto, più che altro perché non vi era altro da dire. Sa bene che il destino della Premier League non è più nelle sue mani. E sa che il suo Arsenal è reduce da quattro gare in cui ha raccolto soltanto tre punti, passando dal più otto del primo aprile al più due di oggi. Guardiola invece ripete la stessa litania di sempre: «Vogliamo vincere ogni gara, non diamo nulla per scontato, ogni partita è una finale». Verissimo. Ma la realtà è che il suo City adesso può permettersi uno o due passi falsi nella corsa per il titolo. Che, vale la pena ricordarlo, sarebbe il quinto in sei stagioni.