Corriere dello Sport, flop Nazionale. Buffon: “«Ora tocca a noi vecchi»”

Buffon, a Torino ha indossato la sua prima maglia di color azzurro dopo 20 anni in Nazionale, ma l’ha “festeggiata” con un risultato negativo.

A mente fredda si è spiegato cosa è successo?

«Se avessimo vinto sarebbe stato meglio, ma sarebbe cambiato poco nella lettura della partita. Se si ha l’ambizione di migliorare e di essere protagonisti, noi all’interno dobbiamo analizzare una prestazione a prescindere dal risultato. E quella di ieri (venerdì, ndr) non è stata l’espressione migliore della nostra squadra».

Cosa vi è mancato?

«E’ stata una gara strana perché nel primo tempo non abbiamo fatto male e anzi abbiamo creato 3-4 occasioni e concesso loro solo un tiro. Nella ripresa ci siamo impauriti e non capisco perché visto che loro giocavano sempre allo stesso modo. Se ci hanno creato dei problemi, la colpa è nostra. E’ stata tutta una questione psicologica e in situazioni come questa dovrebbero essere i “vecchi” a guidare gli altri».

Qual è la ricetta per uscire da un momento così critico?

«C’è un bisogno immediato di risposte da parte nostra, soprattutto da parte di quelli con più esperienza. Mi ci metto io per primo: dobbiamo trovare il modo di dare risposte importanti fin da lunedì. Fa parte delle responsabilità del nostro ruolo e non bisogna scaricare il barile addosso ad altri: se sei considerato un veterano, un giocatore importante di una squadra, devi cominciare a fare il tuo, ad aiutare chi ha bisogno e poi vedrai che le cose andranno meglio».

In questo momento i giovani sono frenati, anzi zavorrati? Sarebbe utile un po’ più di incoscienza da parte loro?

«L’incoscienza aiuterebbe tanto, ma il mio punto di vista non cambia e lo ripeto: sta a noi più anziani dare una mano a chi non ha questa esperienza con un consiglio in campo o rischiando di fare una giocata in più anche a costo di prendersi dei fischi. Chi ha meno personalità e sfrontatezza va sostenuto».

D’accordo, però è innegabile che ultimamente i giovani in azzurro abbiano faticato. Si aspettava qualcosa in più da parte loro?

«Nella vita c’è un tempo per tutto e il ct ha intrapreso questa strada (quella del rinnovamento, ndr) che è l’unica possibile. Per un anno ci sono stati buoni risultati e si è vista una formazione che si stava evolvendo sulle ali dell’entusiasmo, ma è chiaro che i percorsi sono sempre graduali e quando un ragazzo sta vivendo un momento di difficoltà nel proprio club, ci sta che arrivi in Nazionale senza più quelle certezze grazie alle quali si era conquistato un posto al sole. La maglia azzurra pesa e giocare una partita da 90’ con l’Italia non è mai facile».

Vede responsabilità di Ventura per la flessione accusata nelle ultime tre sfide?

«Su Ventura non devo dire niente. Lo sport preferito nell’ultimo periodo è quello di attaccarlo e non lo trovo corretto perché, se per un anno sono stati apprezzati il suo lavoro e i cambiamenti che ha portato, non possono essere uno o due incontri a compromettere questo giudizio positivo. Non aver fatto una prestazione migliore contro la Macedonia e non aver conquistato i tre punti che volevano non può e non deve portare a sindacare sulla bontà dell’allenatore».

I giornali e la critica sono stati molto duri dopo l’1-1 contro la Macedonia. Giusto così oppure avverte una sorta di accerchiamento della Nazionale?

«Se iniziamo a piangerci addosso e a credere che qualcuno remi contro, che il clima intorno a noi non sia positivo, faremo la fine dei perdenti e non ce lo possiamo permettere. Dobbiamo prenderci le nostre responsabilità, non comportarci da vittime sacrificali. Ognuno deve fare quello che sa e vedrete che le cose miglioreranno».

Non è che questo suo appello all’unità è dettato dall’aver notato un po’ di scollamento all’interno del gruppo?

«Il senso di appartenenza ce l’abbiamo, ci tiene legati e ha permesso a molti di noi di avere una vita lunga in azzurro. Questo valore deve emergere perché ti dà spinta e furore».

Tra le possibili avversarie degli spareggi qual è da evitare assolutamente?

«In questo momento la cosa indispensabile è ritrovare noi stessi, mettere in campo la serenità, la lucidità, la convinzione e la determinazione a prescindere dal nome dell’avversaria dello spareggio. Quello adesso è davvero secondario. Prima ritroviamo il modo di performare come sappiamo, poi penseremo agli altri».

La consola il fatto che anche la Croazia e l’Argentina stiano faticando e addirittura rischino di restar fuori dal Mondiale?

«Se vedi le difficoltà della Croazia e dell’Argentina ti viene un po’ d’animo o almeno questo è il modo di ragionare di noi italiani, ma non dobbiamo pensare così. E’ necessario concentrarci solo su di noi e su come crescere. Io devo portare l’Italia ai Mondiali e farò di tutto per riuscirci».

Fallire l’obiettivo sarebbe una catastrofe, un fallimento o cosa?

«Non per me, ma per l’Italia, per la nostra storia calcistica, per quello in cui crediamo e per l’importanza che ha il calcio. L’Italia deve andare al Mondiale».

Nel 1997 vi siete trovati in una situazione simile e contro la Russia avete ottenuto il pass per i Mondiali. Vede analogie tra la Nazionale attuale e quella di vent’anni fa?

«Analogie di percorso sì perché finimmo secondi dietro l’Inghilterra. Quel gruppo, però, io l’ho vissuto poco perché prima di Russia-Italia ero stato convocato solo una volta, contro la Moldavia, ed ero un ragazzo incosciente, che non respirava l’aria dello spogliatoio e non era neppure consapevole che ci giocassimo la vita. Mi ricordo al ritorno un grande sollievo da parte di tutti in panchina dopo l’1-0 a Napoli, anche da parte di Cesare Maldini. Il fardello c’era».

Quel fardello c’è anche adesso?

«Dopo prestazioni come quella contro la Macedonia il clima intorno alla Nazionale non può essere buono, ma perché tutto cambi dobbiamo essere noi che abbiamo un senso di appartenenza maggiore a sgravare i più giovani. Sta a noi metterci sulle spalle fardelli in più rispetto agli altri. Dobbiamo ritrovare equilibrio per la trasferta in Albania e poi in vista del prossimo mese perché ci giochiamo davvero tanto».

Cosa le è rimasto dell’esordio nello spareggio del 1997 in Russia?

«Mi sono rimasti i numeri, i flash e le parate di quel match. Si tratta di un ricordo lontano perché adesso ho più del doppio degli anni di allora e penso di essere una persona più riflessiva e matura. Migliore, direi. Nel 1997 ero un personaggio atipico, ma se uno entrava in empatia con me, capiva che ero anche un ragazzo a cui non potevi che voler bene, uno esuberante che faceva dei casini perché magari non calcolava quello che poteva succedere».

Adesso invece… calcola un po’ di più?

«No, penso un po’ di più e sono meno esuberante. Quel 20% di follia che mi appartiene ce l’ho ancora e mi ha permesso di avere questo tipo di carriera, di continuare fino a quasi quarant’anni».

Essere Buffon, fuori e dentro il campo, è una cosa che pesa oppure gratifica?

«A me non pesa. Ho mantenuto un comun denominatore con il ragazzo che ero perché diffi cilmente c’è calcolo dietro a una mia esternazione. Quando faccio un’intervista non chiedo mai di avere in anticipo le domande e rispondo sempre sulla base di una spinta emozionale che traduco in pensiero a seconda di quello che lo stomaco mi trasmette».

In questi venti anni le è girato attorno tanto calcio. In cosa lo trova migliore? Cosa è cambiato?

«Questo di oggi è un calcio più evoluto. Il livello di competizione è più alto e quindi è tutto più difficile: il ritmo, la fisicità e la forza sono maggiori e anche il più “scemo” tira a 110 chilometri all’ora. Tutto questo fa sì che tu venga sollecitato spesso in condizioni di grande difficoltà e trovare una risposta immediata è obbligatorio se non vuoi rischiare figuracce. Vent’anni fa il calcio lasciava ancora un po’ di spazio all’estro del campione che faceva innamorare la gente: c’erano più possibilità e più tempo per fare le cose, mentre oggi certe libertà ai fuoriclasse non sono più concesse».

Quando smetterà pensa a una festa come quella per l’addio di Totti?

«Assolutamente no. Ho sempre odiato anche le feste di compleanno e non mi è mai piaciuto essere al centro dell’attenzione. Se ci finisco in maniera naturale, allora faccio il protagonista, ma le cose preconfezionate uccidono la mia fantasia. Una giornata come quella mi bloccherebbe e mi metterebbe a disagio»”. Questo ciò che si legge sull’edizione odierna de “Il Corriere dello Sport”.