Corriere dello Sport: “Bonomi: «Io in campo solo se il calcio fa quadrato»”
L’edizione odierna de “Il Corriere dello Sport” riporta una lunga intervista a Carlo Bonomi, il quale si è espresso su vari temi.
Carlo Bonomi, sorpreso della chiamata ma cortese, lo ripete come un mantra a quanti gli chiedono in queste ore «chi te lo fa fare?». Chi te lo fa fare di entrare nella fossa dei leoni, candidandoti a guidare una loggia di conflitti di interesse e di veleni come la Lega di serie A? «Sono un civil servant – dice il presidente di Confindustria -. Lo spirito di servizio è la mia bussola. Se la sesta industria del Paese lancia un grido d’allarme, posso tirarmi indietro?».
Quando gli fai notare che una condizione a cui aveva subordinato la sua disponibilità, e cioè la riservatezza, è venuta meno, lui ammette: «Me lo aspettavo, ma comprendo che la Lega è divisa tra chi vuole rilanciare il calcio e chi vuole coltivare il suo orticello. Non è un passaggio facile e mi metto nei panni degli uomini di buona fede». Poi però ti fa notare che c’era una seconda condizione: che gli uomini di buona fede fossero la maggioranza. «Sul mio nome – dice – ho chiesto ampia convergenza. Deve essere chiaro a tutti che è così. Altrimenti, ognuno resta a casa sua».
Sul concetto di ampia convergenza ci sono diverse interpretazioni: di certo per Bonomi «non sarebbe soddisfatta da un’elezione con sei, sette contrari su venti». Un messaggio diretto ai presidenti dei club, che presto si riconvocheranno per eleggere la nuova leadership. Quando gli chiedi se quell’unico voto, espresso per lui nell’ultima fumata nera dell’assemblea di Lega, sia un segnale di ostilità o una provocazione, fa capire, senza scomporsi, di aver tenuto in conto che qualcuno non voglia mettere mano a una riforma seria del sistema: «Se sarà più di qualcuno, la mia disponibilità cessa all’istante. Confindustria viene prima».
Gli fai notare che sembra il principe Calaf della Turandot di Puccini. Sfida gli enigmi impossibili, rischiando di finire con la testa mozzata. Com’è accaduto metaforicamente a un suo predecessore e collega, Gaetano Miccichè, che ieri sul Corriere della Sera raccontava i mal di testa con cui usciva dalle assemblee di Lega. L’ha letta l’intervista, presidente? «Sì, Miccichè è un grande manager che si è messo a disposizione – dice Bonomi -. Quando ha tentato di toccare alcuni interessi, hanno trovato un pretesto formale per farlo saltare. La litigiosità è dovuta a uno scontro di interessi. C’è chi vuole gestire il calcio come un feudo personale, e chi lo vuole portare nel futuro. Bisogna imparare dallo sport professionistico per eccellenza, quello americano: anche tra i proprietari dei club dell’NBA c’è una dialettica talvolta aspra, ma poi si converge sempre su un obiettivo comune. Qui invece vince l’interesse più miope, più breve e più parziale. Guardate quello che è accaduto sui diritti tv. Si è preferito rinunciare a espandere i ricavi, pur di mantenere il controllo sul sistema».
Ma ha ragione Miccichè, quando dice che bisogna assecondare i grandi club nell’interesse di tutti? Confindustria ha centocinquantamila imprese, fa notare Bonomi. Grandi, medie, piccole e piccolissime, multinazionali tascabili e multinazionali estere. «Però legate da valori comuni e convergenti». Non vale lo stesso per la Lega di serie A, che dieci anni fa era seconda in Europa per fatturato. Oggi è la quarta, dietro agli inglesi, agli spagnoli e ai tedeschi. «Loro sono cresciuti, noi siamo rimasti fermi – dice -. La Premier fa affari d’oro con i diritti tv esteri, noi prendiamo gli spiccioli su YouTube. Perché non gestiamo bene i rapporti internazionali». Quando gli chiedi se lui sia il candidato di Scaroni e dei grandi club, Bonomi non tradisce irritazione: «Qui si tratta di cambiare paradigma: la vera sfida non è tra big e piccoli, ma tra chi vuole un calcio migliore e chi invece lo vuole così com’è. A questi ultimi capisco che la mia indipendenza dia fastidio».
Ma in Confindustria che dicono? È vero che non tutti sono contenti che lei giochi su più tavoli? «Se qualcuno teme che mi distragga vuol dire che sto facendo bene il mio lavoro – dice Bonomi -. Ma non avverrà. Quanto al rischio di conflitti di interesse, parlano il mio impegno e la mia etica, ben noti a tutti. Aggiungo che, delle venti squadre di serie A, dieci sono già iscritte. È un pezzo di mondo presente nel nostro sistema, che adesso chiede di farne parte in maniera più organica. È naturale che accada».
Il calcio che passa dentro questa cruna ha quattro miliardi di debiti. L’idea di coprirli giocando d’azzardo sul mercato, e mettendoci una toppa con le plusvalenze farlocche, non funziona più. È sicuro, Bonomi, che un sistema messo in questo modo sia guaribile? «Sono sicuro che ciò che ho fatto in Confindustria sia replicabile. I bilanci sono tornati in utile, le partecipate sono state messe a posto, e l’anno scorso il Sole 24 Ore ha cambiato sede, ha modificato il formato del giornale, ha chiuso i centri stampa che erano uno spreco inaccettabile di risorse, e ha trovato un accordo sindacale per favorire l’uscita dei pensionabili e assumere giovani. Si può fare anche nel calcio con una gestione seria, indipendente rispetto ai conflitti dei club».
Ma un’economia che elargisce stipendi improbabili a troppi, ha diritto di chiedere ristori? Come la prenderebbero i suoi associati, se il presidente di Confindustria, che invoca sempre rigore, pretendesse dal governo un miliardo per i club di serie A? «Su questo voglio essere molto chiaro – dice Bonomi -. Un conto è un ristoro contenuto per le spese sanitarie sostenute dai club durante la pandemia. Un altro conto un ristoro per risanare i bilanci in squilibrio da anni. Un sostegno alla transizione del calcio verso la sostenibilità è concepibile solo in cambio di un impegno chiaro, serio e pluriennale per una gestione manageriale capace di far crescere i ricavi e contenere le spese. In piena collaborazione con le istituzioni, dello Sport e del Paese. La mia disponibilità è solo a questo fine».
Ma l’operazione della media company, su cui è saltato Paolo Dal Pino, è recuperabile? O bisogna guardare altrove? «Non dobbiamo precluderci nessuna strada – dice Bonomi -, mettiamo sul tavolo tutte le proposte e scegliamo la migliore. Ma una cosa è certa: il calcio ha il dovere di aumentare la torta degli introiti, ha bisogno di investire in stadi nuovi, e ha doveri di sussidiarietà verso tutto il movimento sportivo».
Intanto i tycoon americani comprano sempre di più. Se gli chiedi se siano colonizzatori o portatori di ricchezza, Bonomi opta senza dubbi per la seconda risposta: «È la prova che il mercato è attrattivo. Ci credono anche i grandi fondi, perché il calcio è un settore che ha margini di miglioramento. Comprano a cifre basse rispetto al potenziale del mercato, e quindi intravedono una grande prospettiva. Poi si scontrano con la realtà del sistema sportivo e di quello amministrativo nazionale. Vengono con l’idea di fare uno stadio in pochi anni, e sbattono contro la burocrazia. I casi di Firenze, Roma e Milano parlano da sé».
Non lo sanno che in Italia il profitto è una brutta parola? «Bisogna mettersi d’accordo – sottolinea Bonomi -. Qui l’industria che perde sbaglia, l’industria che guadagna sbaglia due volte. Ma il pareggio non è nel pantheon valoriale di un imprenditore». Per questo gli imprenditori italiani girano alla larga del calcio? O hanno paura di esporsi troppo e di finire nel mirino di qualche inchiesta? «Conoscono meglio degli stranieri la realtà – dice il presidente di Confindustria -. Quando un sistema è malato, l’imprenditore non entra, perché un conto è scontrarsi sul mercato in maniera competitiva, un altro è giocare con i dadi truccati».
Ma come si riaggancia la finanza all’economia reale, gli stipendi da favola al valore effettivo degli atleti? I tetti ai salari degli spagnoli hanno fatto scappare Messi. «Le stelle americane sono tra i professionisti dello sport più pagati al mondo. Bisogna però riconnettere il denaro al merito, cioè ancorare gli investimenti alla corretta previsione del ritorno economico. E, più di tutto, bisogna allargare la torta. Il fair play finanziario deve essere ferreo. E niente finte compravendite per gonfiare gli attivi patrimoniali». Ma la Superlega è un allargamento della torta o la rottura del giocattolo? «È l’esigenza di crescere. Se il calcio resta un mercato fermo, è ovvio che i più attivi cerchino mercati alternativi. È una legge economica elementare. Nessuno, neanche i club che hanno aderito alla Superlega, volevano smontare il calcio. Le due dimensioni, nazionale e sovranazionale, devono essere conciliabili».
Ma è giusto un sistema di franchigie, dove si entra e si resta a prescindere che si vinca o che si perda? È giusto che da quel sistema un’Atalanta resti fuori? «Non è giusto – sostiene ancora Bonomi -. Un campionato sovranazionale va sempre collegato al merito sportivo. Su questa certezza non si transige. Lo spirito dell’industria calcistica è il sogno. Anche il Leicester o il Cagliari devono poter vincere il titolo».
In Italia negli ultimi dieci anni il sogno e il mordente del campionato si sono spenti in primavera. La Juve per nove stagioni, e l’Inter da ultimo, hanno preso il volo facendo il vuoto attorno a sé. Quest’anno lo scudetto è tornato contendibile, ma non sarà il caso di rinverdire la passione con i playoff? «Gli sport americani sono tutti basati sui playoff. Chi sta davanti in campionato gioca in casa nella fase finale, ma rischia fino all’ultimo secondo. Queste riforme si possono e si devono fare insieme. Senza strappi e contrapposizioni, perseguendo un interesse comune. Anche perché, se la torta non cresce, non ci sono neanche le risorse per il sostegno ai club minori e ai vivai. Se si vuole fare, bene. Se no, lo ripeto: non sono disponibile e non antepongo certo un compito impossibile al mio primo dovere, che è e resta Confindustria».
Bonomi, lei invoca imparzialità e indipendenza. Ma tiferà per qualche squadra. «Per l’Inter. Chiunque tifa per una squadra. Se non lo fa, non ama il calcio. L’indipendenza è un’altra cosa». E quanto valgono i ragazzi di Mancini ai Mondiali? «Almeno un punto di Pil. Lo dissi dopo la vittoria di Wembley e non ho sbagliato. I successi sportivi hanno influenza sul sistema Paese». Ma i club che andrebbe a rappresentare guardano la Nazionale in cagnesco. «È innegabile che ci sia un tema di calendari, su cui bisogna fare una riflessione. Seduti a un tavolo, non come guelfi e ghibellini, ma giocando tutti per la stessa squadra».