“Non ci sono più gli esoneri di una volta. Ci siamo imborghesiti. Siamo virtuosi, qualcuno dirà: pure troppo. Finiti i bei tempi in cui cacciare l’allenatore significava non dover mai dire: mi dispiace. Quest’anno solo tre miseri cambi in serie A dopo un girone più una giornata. Inter, Palermo, Udinese. Il minimo sindacale. Eppure: l’esonero per futili motivi era una nostra specialità. Assumevi un allenatore, eri sicuro, ma anche no, la piazza protestava, lo cacciavi, ne prendevi un altro, la piazza protestava, ti pentivi, lo richiamavi e intanto retrocedevi, mentre la piazza continuava a protestare: erano anni felici e spendaccioni. Ma questi sono tempi di crisi, ci si deve invece accontentare. E la parola chiave per entrare in questa nuova era è: «Kintsugi» (poi ve la spieghiamo). I MOTIVI. Siamo in controtendenza rispetto al passato. Ci siamo placati, il viagra che provoca l’esonero è finito. In Germania sette squadre – su diciotto – hanno già cambiato allenatore. In Spagna cinque club si sono iscritti alla giostra, col Valencia che è andato in corto circuito: Ayestaràn, Gonzales, Prandelli, ancora Gonzales. Quattro i cambi di panchina in Francia, tre nella Premier, con lo Swansea che vanta il record: Guidolin, Bradley, Curtis, Clement, quattro facce diverse per la stessa panchina. Siamo senza certezze. Una volta si diceva: l’allenatore paga per tutti. Ora non più. Motivi: 1) I soldi, ce ne sono meno: e ciò causa; 2) Una più oculata gestione delle risorse umane che deriva anche da 3) Una maggiore consapevolezza che il cambio di panchina, spesso, non serve: si spiega anche così la fiducia di Crotone e Pescara nei confronti di Nicola e Oddo. In altri tempi sarebbero saltati come tappi di bottiglia a Capodanno. COME ERAVAMO. C’è stato un tempo in cui non ci batteva nessuno. Eravamo spavaldi e inimitabili. Diciotto cambi di allenatore nel 2011-12, provateci voi. L’anno prima – 2010-11 – al 20 gennaio – oggi – ben dieci squadre avevamo cambiato allenatore. Erano rivoluzioni vere e proprie, qui ci siamo all’arte della conservazione. Nelle università di Dusseldorf o Lione si studiavano vita, opere, miracoli e fenomenologia dell’esonero dei vari Preziosi, Cellino, Zamparini. L’allenatore usa e getta era una prerogativa tutta italiana. All’estero quelli si riempivano la bocca con la parola progetto – progetto a chi? prova a ripeterlo se hai coraggio – mentre da noi ogni cambio di stagione era buono per ripartire da zero. Ragionavamo come se non ci fosse un domani. Bruciavamo tutto in fretta, ci si scaldava al fuocherello di rivoluzioni interrotte. CONTROTENDENZA. L’anno scorso, di questi tempi, in serie A avevano già cambiato allenatore sei società (a fine campionato furono nove). Tranquilli, pacifici: tutto nella norma. A gennaio il Bologna aveva salutato Rossi e si era consegnato a Donadoni, Zenga era stato messo alla porta dalla Samp, la Roma passava da Garcia a Spalletti, a Verona Del Neri era subentrato a Mandorlini, il Carpi aveva stravolto tutto – squadra a Sannino – per poi rimangiar si tutto richiamando Castori. A Palermo avevano fallito sia Iachini che Ballardini: questi erano i giorni dell’interregno di Viviani. Va detta un’altra cosa. La scorsa estate abbiamo cambiato molto, più di tutti. Praticamente metà serie A: 10 squadre su 20 (50%). Nessuno in Europa meglio (peggio?) di noi. In Bundesliga 6/18 (33,3%), in Premier e in Ligue1 nuovi 6/20 (30%), nella Liga 4/20 (20%). Dunque: cambiare è fisiologico, farlo prima – a bocce ferme – però è meglio. KINTSUGI. Eravamo quelli delle panchine rotanti. Invece: da quando c’è la serie A a venti squadre – campionato 2004-05 – non siamo mai stati così sobri, così virtuosi, così attenti a non fare passi falsi. La media di esoneri, a metà gennaio, si attestava sui sei-sette cambi. Per anni abbiamo pensato che chi viene dopo è sempre migliore di chi viene prima. Miopi e dissennati, quelli eravamo. nella nostra vita abbiamo cambiato fidanzate, telefonini, mogli, macchine, abbiamo dipinto e ridipinto stanze, ci siamo tolti maglioni per sempre, abbiamo abbandonato sogni, lì, su quella panchina. Forse ora è arrivato il tempo del «Kintsugi». E’ una filosofia di vita giapponese. Un’arte, un modo sostenibile di vivere. Le cose si riparano, non si cambiano. Gli allenatori, pure.”. Questo quanto scritto da “Il Corriere dello Sport”.