L’edizione odierna de “Il Corriere dello Sport” si sofferma sulla finale Champions League in programma questa sera.
Arrivano da due mondi diversi. Carlo Ancelotti e Jürgen Klopp hanno del calcio una visione differente anche se ora, come posizioni… filosofiche sembrano un po’ meno distanti. Carlo è l’allenatore dei giocatori, Klopp è l’allenatore del gioco. Sono le posizioni di partenza a stabilire la prima distanza. Ancelotti crede in un calcio dove il singolo, se forte, meglio ancora se fortissimo, deve avere tutto lo spazio necessario per trarre il meglio da se stesso, un “meglio” che poi va a vantaggio della squadra. Il tedesco crede in un calcio dove il collettivo rende tutti i giocatori più forti, più consapevoli e più responsabili.
A inizio carriera Ancelotti era più vicino alle idee di Klopp. Portava dentro di sé le profonde lezioni di Sacchi a cui aveva assistito direttamente, anzi, ne era stato uno degli interpreti più fedeli, un vero discepolo. Arrigo gli aveva trasmesso non l’idea ma l’ideologia del 4-4-2 aggressivo, dove il talento doveva necessariamente mettersi a disposizione del collettivo. Carletto era stato uno degli assistenti di Sacchi durante Usa ‘94, aveva assistito alle “incomprensioni” fra il ct e il più grande numero 10 del calcio italiano, Roberto Baggio, ragion per cui, quando divenne allenatore del Parma, rifiutò l’acquisto di Baggino in ossequio al 4-4-2. In seguito dirà di essersi amaramente pentito di quella scelta. Ovvio. Ancelotti cambiò idea (anzi, ideologia) quando Berlusconi e Galliani riempirono il Milan di genio e creatività. Quella fantastica squadra giocava con un solo mediano (Gattuso) e tutti numeri 10, Seedorf, Kakà, Pirlo, Rui Costa. Un po’ di equilibrio e tutta qualità.
Quando nel febbraio del 2001 Klopp ha iniziato ad allenare il Mainz, la squadra dove aveva chiuso la carriera da giocatore, i suoi concetti base erano già chiari e ben sviluppati nella sua mente: modulo 4-4-2, difesa alta a pestare i piedi sulla linea di metà campo (in Italia la rivedremo con l’Empoli e poi col Napoli di Sarri), pressing continuo e verticalizzazioni immediate, senza perdere tempo in palleggi snervanti. Il successo di Klopp è arrivato negli anni del Borussia Dortmund dove il livello tecnico dei giocatori a sua disposizione era cresciuto. Tanto per dare un’idea il centravanti era Lewandowski. Non si è mai staccato dalla difesa a quattro (del resto nemmeno Ancelotti, se non in rarissime circostanze), ha perfezionato il pressing alto, il recupero palla immediato e ha aumentato la frequenza offensiva dei suoi terzini. Quest’ultimo aspetto appare oggi evidentissimo nel Liverpool con Alexander-Arnold, uno dei primi tre terzini di fascia destra d’Europa, e Robertson.