L’edizione odierna de “Il Corriere dello Sport” si sofferma sul caso scommesse riportando un’intervista all’ex tecnico dell’Italia Under 21 Nicolato.
Sono i “suoi” ragazzi quelli finiti al centro dello scandalo: la generazione cresciuta a Coverciano, che Paolo Nicolato ha accudito insieme ad altri colleghi nelle nazionali giovanili e per i quali “Leonida” – così l’hanno sempre chiamato i calciatori – ha rappresentato un punto di riferimento educativo oltre che tecnico. A loro diceva di non protestare quando gli arbitri sbagliavano, di non cercare alibi nelle sconfitte, di credere nei valori dello sport. Sotto accusa ci sono quegli stessi ragazzi che lui ha sempre difeso e per i quali ha lottato quando i club faticavano a lanciarli.
Nicolato, come ha preso le notizie di questi giorni? «Fa male, sono ragazzi a cui voglio bene e che mi hanno dato sempre tanto anche dal punto di vista umano. Oggi va di moda dare sentenze, io spero solo che siano coinvolte meno persone possibile».
Nelle nazionali giovanili si fa formazione sulle scommesse, sul doping e su altre devianze? «Assolutamente sì. La federazione organizza corsi, l’Assocalciatori informa i ragazzi. E anche l’Uefa interviene con degli esperti che vengono a parlarci di casi concreti».
Allora come si spiega tutto quello che sta accadendo? Lei conosce bene Tonali, Fagioli e Zaniolo. «Difficile spiegarlo. Possiamo però farci qualche domanda, interrogando anche quelli della mia generazione. Io vedo attorno a questi ragazzi una grande crisi delle agenzie educative che invece dovrebbero aiutarli. Che insegnamenti diamo? Come spieghiamo il valore del denaro?».
Dicono che è una generazione bruciata. «No, non è così. Io vedo più difficoltà nella generazione dei genitori di questi ragazzi. E dobbiamo tutti sentirci colpevoli, dal calcio alla scuola passando per la famiglia, se ragazzi di 20 anni prendono strade sbagliate».
Perché i calciatori sono più esposti alle scommesse? «Perché sono ragazzi soli, che lasciano casa quando sono molto piccoli vivendo un percorso complicato. Non li voglio giustificare, chi ha sbagliato è giusto che paghi, ma oggi sarebbe troppo semplice puntare il dito solo sugli indagati. Siamo abituati a cercare colpevoli, io preferirei che si cerchi invece la soluzione a un tema generazionale».
Che consiglio darebbe a chi ha sbagliato? «Semplicemente di approfittare dello sbaglio per migliorare perché c’è sempre un modo per riscattarsi. Il calcio ogni giorno ci insegna proprio questo».
Fagioli ha patteggiato: 7 mesi di stop e poi un percorso riabilitativo che prevede anche degli incontri con i giovani. «È importante come si utilizza un errore. Se oltre a farti crescere, aiuta gli altri a non commetterlo, è il massimo. Mi piace l’idea della pena rieducativa».
Chi sta vicino a questi ragazzi si accorge di certi demoni? «È molto difficile. Noi allenatori conosciamo tanto del loro carattere, ma non tutto. Genitori, allenatori, professori: serve un gioco di squadra migliore. La nostra è una società che ambisce al successo rapido, che non ammette rallentamenti, dove il fine giustifica i mezzi e dove se non arrivi primo sei un fallito. Per un giovane è complesso crescere in una società così malata».
I giovani di oggi sono più fragili rispetto a quelli di 30 anni fa? «Certamente sono più esposti e più insicuri. Quelli della mia età sono cresciuti in un ambiente più protetto».
Ma non guadagnano troppi soldi? «Troppi in alcuni casi, senz’altro. Ma non è certamente questo il problema. Bisogna non lasciarli soli a gestire situazioni troppo più grandi di loro, in un mondo che spesso non li aspetta».