Bosman: «La Superlega è solo business e i giocatori sempre più simili a robot»
L’edizione odierna de “La Gazzetta dello Sport” si sofferma sulla Superlega e sulle parole di Jean-Marc Bosman.
L’uomo che per davvero ha rivoluzionato il mondo del calcio, a metà degli Anni 90, con una sentenza rimasta nella storia, vive a pochi chilometri a nord ovest di Liegi, in Belgio. Il 59enne Jean-Marc Bosman osserva con molto scetticismo il colpo di scena sentenziato ieri dalla Corte di Giustizia europea che ha messo sotto accusa i monopolii di Uefa e Fifa, accettando le tesi della società A22 Sports Management che però promuove a sua volta una Superlega. Un progetto che, secondo l’ex centrocampista e capitano dell’Under 21 belga che nel 1995 – grazie al ricorso vinto davanti alla Corte di Giustizia Ue – permise di liberalizzare la circolazione dei calciatori a livello comunitario e “regalò” la possibilità ai giocatori di trasferirsi a parametro zero a fine contratto, «è solo un altro modo per fare business, a discapito dei giocatori».
Bosman, che cosa ha pensato ieri mattina quando ha visto i titoloni favorevoli alla Superlega? «Guardi, le parlo dalla mia modesta casa, dove vivo con mio figlio e a malapena riesco ad avere un introito mensile per pagare tutte le bollette. Penso che questa sentenza della Corte europea serva solo a ricordare a Fifa e Uefa che non sono al di sopra delle leggi e che non possono pretendere di avere il monopolio sul calcio e sui giocatori».
È comunque un assist per la Superlega. «Ho molti dubbi su questa Superlega. E il primo è puramente pragmatico. Oggi i calciatori delle squadre più importanti giocano partite di campionato, di Champions, Europa e Conference League. Di fatto, si va in campo già ogni due o tre giorni. Non vedo l’interesse di aggiungere un’altra competizione per quanto la presentino come alternativa. A quel punto si giocherebbe davvero ogni giorno. Nessuno pensa alla salute dei protagonisti, cioè dei giocatori per cui invece io mi ero battuto all’epoca».
Il calcio di oggi le deve molto. «Certo, perché liberalizzandone la circolazione, i giocatori comunitari hanno potuto muoversi ed esportare i loro talenti, facendo le fortune dei grandi club e delle grandi competizioni. Ma a me non ne è venuto mai in tasca neanche un centesimo. Anzi, non sono neanche mai stato invitato da Fifa o Uefa a un qualche evento. Nessun grande club mi ha mai teso la mano, quando invece dovrebbero dedicarmi una statua. Oggi riesco a vivere grazie a una pensione di disabilità dovuta alle mie cervicali. A parte la Fifpro, il sindacato internazionale dei giocatori, solamente un giocatore delle nuove generazioni mi ha davvero aiutato in questi anni».
Di chi si tratta? «Di Adrien Rabiot che dopo aver vissuto quel che ha subito al Paris Saint Germain, che lo aveva messo fuori rosa perché rifiutava di rinnovare il contratto, ha capito l’importanza della sentenza Bosman che ha dato garanzie e grandi libertà ai giocatori. Sua madre, Véronique, un giorno mi chiamò dicendomi che erano molto sensibili al fatto che fossi stato abbandonato da tutti, così in seguito è venuta a casa mia, con un amico e un altro suo figlio, e sono intervenuti per darmi un sostegno. Poi, nel 2020, in occasione dei 25 anni dalla sentenza sul mio caso, anche la Fifpro, che mi è stata sempre vicino, mi ha versato una donazione che mi permette di vivere oggi con mio figlio. Uefa e Fifa su ogni contratto dovrebbero invece prevedere una percentuale, anche infima, dello 0,01 per cento, solo per me»