«In quel momento ho pensato che la cosa più vera che potessi presentare a loro per fargli capire che li vedo bene, li vedo forti, è una cosa che amo e gli ho portato la foto di mia figlia. E’ normale che se uno la vede così, non vede una persona, ma un mostriciattolo. Però io in questo mostriciattolo, guardandolo con gli occhi dell’amore, ci vedo una cosa graziosa, e non rinuncerei mai a vederla normale, vorrebbe dire non amare lei. Io sono felice e contento di avere questa donna, così com’è fatta. Ed io così ho detto a loro, io vi vedo con questi occhi. Quando vi alleno, voglio che create quella sinergia che vi porta ad essere come dei fratelli. A Palermo ci sono riuscito. Basta pensare di riempire il Renzo Barbera con 40.000 persone. Con una squadra data per senza chance, abbiamo vinto quattro partite tra semifinali e finali, senza subire gol. Proprio perché questi ragazzi avevano capito che la chiave di lettura non era tanto il modulo, oppure gli schemi per fare gol, ma soprattutto volersi bene ed aiutare il compagno in difficoltà, perché un centimetro fa la differenza a fine partita. Chiamata con Capello? Tante volte raccontiamo lo sport, soprattutto il calcio per gli schemi, per le giocate o per la bellezza del tocco con la palla. Non lo raccontiamo mai per le emozioni che provano le persone. Capello dopo le dimissioni di Perugia e l’intervista alla Gazzetta mi ha chiamato e mi ha raccontato la sua storia. Lui quando lasciò la scuola per il calcio, suo padre in modo molto amorevole gli disse “Provaci”. Quel provaci per lui fu la sua carriera prima da giocatore e poi da allenatore. Questo è fondamentale per capire i trofei vinti da Fabio Capello. Se tu lo racconti in questa maniera, tutti quelli che hanno la possibilità di arrivar primi, capiscono quanto è importante chi ha vinto che con il suo messaggio, aiutano quelli che in quel momento stanno perdendo. Per me il calcio è “Provaci”. Quando io parlo ai giocatori, cerco di farlo con il cuore. Ad ognuno di loro cerco di dare un qualcosa, poi è normale che la realtà è diversa. Tante volte il problema è che un giocatore ha una compagna che vuole fare la velina e non che il suo compagno viva delle emozioni, vuole la prima pagina, la ricchezza, sfruttando ciò che gli può dare questa persona. Tante volte un allenatore fa il lavoro sul campo, poi va a casa e se non c’è la famiglia giusta si fa molta fatica. E’ difficile il messaggio che voglio far passare io, ma sono fatto così, non ci rinuncio».