Nel calcio c’è chi insegue risultati, chi vive di schemi e chi, come Silvio Baldini, trova la sua dimensione in un rapporto unico con i giocatori e con la vita stessa. In una lunga intervista al Corriere dello Sport in edicola oggi, l’allenatore del Pescara si racconta senza filtri, alternando aneddoti curiosi a riflessioni profonde sulla sua filosofia di vita e di calcio.
Baldini, noto per il suo approccio fuori dagli schemi, ricorda con passione la sua carriera, dagli inizi a Bagnone, fino alle recenti imprese con il Pescara. Parla di come il calcio sia per lui un mezzo per educare e recuperare i giovani, e di come la sua filosofia sia ispirata al “Mito di Sisifo” di Camus: accettare le difficoltà della vita e trovare la felicità nel continuo ricominciare.
Con il suo solito tono schietto, racconta del suo passato, delle sue influenze e dei suoi metodi. Dalle sfide contro le big del calcio italiano al rapporto con giocatori come Di Natale, Baldini rivela come il rispetto del gruppo e l’amore per il lavoro siano sempre stati i suoi principi guida.
Un’intervista che, come il personaggio, sorprende, diverte e fa riflettere, con spunti che vanno oltre il calcio per toccare temi universali come la felicità, il sacrificio e la passione per ciò che si fa.
Giovedì il Milan Futuro ha sbattuto contro il presente del Pescara di Baldini, per il quale passato e futuro non esistono, sono solo convenzioni. Non ho resistito: ho chiamato Silvio, trovandolo come al solito irresistibile. «È stato troppo bello, Ivan» mi ha accolto così. «La passione che ci hanno messo i ragazzi contro gente che ha delle presenze in Serie A e anche in Champions. Alcuni dei miei sono al minimo sindacale, guadagnano 30mila euro l’anno. Dall’altra parte c’era chi ne prende 250, 300mila. In campo la differenza di valori non s’è vista, e non c’era invidia o urgenza di riscatto, ma lavoro».
Baldini è sempre quello che quarant’anni fa cominciò dal Bagnone, seconda categoria. «Bagnone è un paesino famoso solo perché lì furono vinti 160 milioni al Superenalotto, la prima grossa vincita della storia».
E non fosti tu il beneficiato. «No, però ci andai molto vicino».
Figuriamoci. «Credimi, te lo posso giurare sulla mi’ figlia. Il giovedì, alle tre di notte, andammo a funghi io e l’amico Massimo Rossi, che fa il dentista. Erano i primi di settembre. A un certo punto mi disse “perché non compriamo un biglietto?”. E io “cazzo, vuoi che proprio a Bagnone?”. Tornato a casa ne parlai con mia moglie, la parsimoniosa, lei sta attenta alle finanze. Mi scoraggiò: “Ma sei matto, 90 euro per una lotteria?”. M’era venuto un pensiero dei miei, quello di comprare 90 euro di biglietti. Perché 90 e non 50 o cento poi? Se avessi dato retta all’intuizione, chissà».
Avresti fatto un’altra vita. «Non ho mai d esiderato la vita del ricco, i ricchi si adagiano, mentre a me piace combattere per le piccole conquiste di ogni giorno. Il professor Augusto Deprato, altro amico mio, che oggi ha 85 anni, mi ha introdotto a Camus, al mito di Sisifo. Secondo il quale…».
Sta’ a vedere che adesso me lo spieghi… «Ascoltami, Sisifo fu condannato dagli dei a un’eterna punizione, doveva far rotolare una roccia immensa su una collina, solo per vederla rotolare giù quando raggiungeva la cima, costringendolo a ricominciare. Un ciclo senza fine. Secondo Camus, Sisifo è un simbolo della condizione umana. L’eterna ripetizione di un compito assurdo e senza senso, riflette l’assurdità della vita stessa. Nonostante la fatica e la determinazione nel fare qualcosa che non porta a conclusioni soddisfacenti, Sisifo continua a farlo».
Concludi, e arriviamo a te. «Bisogna immaginarlo felice, secondo Camus, poiché la consapevolezza della condizione umana e l’accettazione dell’assurdità della vita possono condurre alla libertà interiore. Io sono felice delle mie difficoltà e libero. Amo la vita, sono felice perché ho una famiglia meravigliosa, non ci fa paura nulla. E sono come Sisifo, ogni volta che arrivo in cima, ricado giù e ricomincio».
Se non sbaglio ti definivi educatore, prima che allenatore. «Mi piace recuperare chi ha problemi, parlo dei ragazzi che alleno riportandoli all’essenza del calcio e del lavoro che hanno scelto per affermarsi. Mi è capitato di riuscirci a Palermo, Empoli, Carrara, anche qui a Pescara. Sono gratificazioni che riempiono la vita».
Tutte belle cose, ma poi nel calcio, il tuo lavoro, conta il risultato. Che decide i destini. «Il risultato è tutto in una società che rinuncia alle idee e ai valori. È la metafora del diavolo, se non contasse il risultato non esisterebbe il diavolo».
Oggi a San Siro si sfidano Fonseca e Motta, e so già cosa mi dirai. «Che per me non esistono perché vivo della mia dimensione, non mi interessa cosa fanno, se giocano bene o male, non gli dedico tempo».
Ho capito, ma a qualcuno ti sarai pure ispirato in quarant’anni. «All’inizio guardavo con curiosità e ammirazione Sacchi, Orrico, Maifredi. Poi le ispirazioni me le sono fatte venire da solo».
Snobbi anche Guardiola? «Un fuoriclasse, come Maradona, due portatori di creatività, ma anche inimitabili, fuori concorso. Io amo innamorarmi della mia squadra e adotto la strategia militare. Cerco di fare il massimo per ottenere il massimo da chi alleno, non sono né mago, né filosofo. Quando mi sono presentato a Pescara era in atto una contestazione fortissima, roba da mettersi le mani nei capelli. Sono arrivati tre giocatori, uno dei quali si è rotto il crociato e l’abbiamo perso. Piccoli ritocchi, ho tagliato chi non era convinto e adesso le cose girano bene».
Qual è stato il giocatore più forte che hai allenato? «Di Natale. Con me ha imparato a stare nella squadra. Più tardi a Udine non si allenava con gli altri il mercoledì, lui e Sanchez prendevano un portiere e affinavano il tiro. Totò me l’ha confermato, con me non sarebbe stato possibile. Avrei rinunciato a un capocannoniere per rispetto del gruppo».
Il Var è lo strumento del diavolo? «Da noi entra ai playoff, il Var è per il calcio del risultato…».
Con gli arbitri come butta. «È capitato di aver a che fare con qualche sc… vabbeh, quello che non ti saluta quando lo incontri, il fenomeno. Mi sono arreso all’evidenza. La sua».
Il tuo amico Spalletti allena la Nazionale. «Lo conosco da 35 anni, giocava ancora nello Spezia. L’ho sentito prima degli Europei e anche dopo, era triste, l’ho lasciato in pace».
Fu lui a presentarci, al Dall’Ara nel ’99. Quando ti vidi ti scambiai per un ultrà. Pensai: questo me mena. (Ride di gusto). «E io ricordo quando un ultimo dell’anno, nel peri odo in cui rimasi fermo per 6 anni, telefonasti per farmi gli auguri e parlar male di Ulivieri… Fui piacevolmente sorpreso. Pensa che stavo già pensando di cambiare mestiere».
E cosa avresti fatto? «Il pastore di capre e qualche mucca. Credo che anche gli animali pensino e sentano la natura, percepiscano il piacere dell’accudimento».
Silvio, se proseguiamo così ci ricoverano. «Sogno una vita in montagna, sono Heidi».