Intervenuto ai microfoni di “Repubblica.it”; Massimo Morgia, allenatore del Chieri, Serie D piemontese, si è espresso così: «Non parlo per me, che ho una pensione da professionista. Sulla mia pagina Facebook ho ripreso le parole del mio amico Cristiano Lucarelli sui poveri. Gli invisibili sono quelli che appunto non si vedono. In serie D sono la maggioranza, ma ce ne sono anche nel campionato di Eccellenza: accanto a calciatori e allenatori mascherati da dilettanti, che scendono di categoria per guadagnare qualcosa in più, ce ne sono tanti altri che invece prendono 700-1000 euro al mese. E che non li prenderanno mai più, in questa situazione. I famosi rimborsi spese? Si chiamano così, ma in serie D ci sono anche trasferte di 7-8 ore: è una vita da professionista mascherato. Non esistono tutele giuridiche, se non magari una vertenza finale, che conta pochissimo. Fino alla serie C le società pagano i contributi, c’è un fondo pensionistico, in questa fase ci sono gli ammortizzatori sociali. Io ho avuto la fortuna di potere scegliere, rinunciando a panchine di categorie superiori, perché privilegio sempre i progetti dove posso lavorare anche coi giovani, non solo con la prima squadra. Ma un invisibile non sceglie mai di esserlo. Va così da quasi trent’anni. E’ l’occasione per una grande ristrutturazione. Quando giocavo io, fino a metà degli anni Ottanta, c’era una differenza minima tra serie A e C, infatti i Rivera e i Mazzola non sono mica diventati miliardari: la distanza retributiva era giusta. Oggi io non contesto il cambiamento, dico solo che adesso i due mondi sono troppo lontani per potere restare insieme. Gli interessi dei grandi club, i loro legami internazionali, non sono più gli stessi della maggior parte delle altre società. Conviene prenderne atto: meglio un supercampionato europeo e uno italiano, con maggiore equilibrio e stadi meno deserti, dove torni il concetto di campanile. Questa crisi è l’occasione giusta per raddrizzare la direzione, restituire allo sport il suo ruolo popolare. C’era una volta l’oratorio, le società di calcio ti rifornivano di tutto, scarpe, magliette. Oggi le società dilettantistiche fanno business, i ragazzini pagano per andare a giocare. Serve una riforma che restituisca al calcio la sua funzione di aggregazione sociale. Non è retorica affermare che il pallone abbia tolto tanti ragazzi dalla strada. Posso ben dirlo io, da romano cresciuto alla Garbatella e a Tor Marancia negli anni Cinquanta, quelli della ricostruzione dopo la guerra».